ROSARIO LIVATINO….essere credibili e non solo credenti

S.T.D.: “Sub tutela Dei” ! Un acronimo inizialmente incomprensibile, tanto da essere

scambiato per una sigla qualunque o, addirittura, per un complesso musicale è,

invece, la sintesi della luminosa esistenza di Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”,

capace di vivere sempre nel riferimento costante a Dio.  Una persona “normale”, che

ne ha “fatto” un santo, ucciso “in  odio alla fede” da quattro killer ventenni della

“Stidda”, organizzazione criminale di stampo mafioso dell’agrigentino, la mattina del

21 settembre 1990, lungo la strada statale 640 Agrigento – Caltanissetta, mentre con

la sua auto, senza scorta, si recava in tribunale.

E l’ultima frase pronunciata ai suoi sicari “Picciotti, che cosa vi ho  fatto?” è rimasta

a indelebile memoria, testimonianza di un martirio né cercato né voluto, ma vissuto

con la dignità degli uomini grandi. A 33 anni dal suo assassinio, Livatino ha ancora

tantissimo da insegnare sul piano della fede, dell’amore alla Chiesa e alla legalità, sul

rispetto e l’accoglienza dell’altro, anche se ha sbagliato.

A tal punto che è  praticamente impossibile distinguere in lui l’uomo, il giudice, il

cristiano, perché era sempre se stesso, in qualsiasi contesto della vita: personale,

familiare, professionale.

Tutto questo, ovviamente, frutto anche e soprattutto di un’esistenza permeata dei

valori del Cristianesimo, tanto che il giorno del giuramento, che sanciva il suo

ingresso ufficiale in magistratura, si è affidato a Dio, affinchè rispettasse sempre il

giuramento stesso e si comportasse in modo degno dell’educazione ricevuta dai

genitori. Ogni mattina, prima di entrare in tribunale, ad Agrigento, andava a pregare

nella vicina chiesa di San Giuseppe; inoltre, si impegnò affinchè nell’aula delle

udienze ci fosse un crocifisso. Crocifisso che,spesso, vedeva nel volto e nella persona

degli imputati, in cui, prima di tutto, “rintracciava” la persona, con una propria

dignità, sebbene avesse sbagliato e, quindi, da accogliere e da amare, comunque,

come immagine di Dio. Perché, a suo avviso, la giustizia è necessaria, ma non è

sufficiente e può e deve essere superata dalla legge della carità, che è la legge

dell’amore verso il prossimo e verso Dio, il prossimo in quanto immagine di Dio.

Ecco perché ha saputo fondere fede e diritto, considerandole due realtà

continuamente interdipendenti fra loro, in reciproco contatto, a tal punto che, spesso,

prima di emettere una sentenza, si ritirava in preghiera e confidava agli amici di

sentire una sorta di lacerazione interiore per le conseguenze che la sua decisione

avrebbe potuto comportare. Infatti, riteneva che il compito del magistrato è quello di

decidere e decidere è scegliere, una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a

fare. In questa scelta – era il suo pensiero portante – il magistrato credente può

trovare un rapporto diretto con Dio, perché rendere giustizia è preghiera, dedizione di

sé a Dio, realizzazione di sé. Tutto questo perché è  sempre e solo la carità, pure in

un’aula di tribunale, la norma obbligatoria di condotta perché è proprio tale salto di

qualità che caratterizza il cristiano.

Quanto detto conferma l’”unità” della sua persona dedita a Dio e dedita al prossimo,

capace di essere se stessa in qualsiasi circostanza. Una persona che ha manifestato

tutta la propria umanità anche in una fase di buio, la “notte oscura” (era il 1984), in

un periodo di pressioni e di minacce velate, a tal punto che si allontanò

dall’Eucarestia, a cui si accostava con gioia fin da bambino. Una crisi che supererà

due anni dopo, immergendosi nel suo lavoro, accettandone tutti i rischi e le ansie per

la sua incolumità (pur senza darlo a vedere per non far preoccupare i genitori) e

riaccostandosi all’Eucarestia.

Nella sua quotidianità, con il suo vissuto, l’amore per i genitori, il rispetto verso gli

altri, la generosità, la purezza d’animo, la levatura morale, la vasta erudizione e

l’amore per la sua terra, Rosario Livatino ha lasciato il segno distintivo della

grandezza delle sue scelte: essere e non apparire (mai un’intervista, mai alcun gesto

eclatante), quindi scelte di coraggio e di amore. Un uomo del suo tempo, un

professionista a servizio di una giustizia non solo ideale ma concreta; un credente

credibile seppure discreto, un uomo sorretto da principi morali e a cui anche la Chiesa

ha riconosciuto qualità non comuni.

C’è una frase del beato Rosario Livatino che è uno sprone costante a vivere in

pienezza al servizio degli altri: “Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto

siamo stati credenti ma credibili”.

E Livatino è stato talmente credibile, fino in punto di morte, che uno dei suoi

uccisori, Gaetano Puazzangaro, si è pentito e convertito ed è stato uno dei testimoni

nella causa di beatificazione del “giudice ragazzino”.

Rosario Livatino, quindi, è un “faro” che illumina il percorso di

fede, permeato di gesti concreti e non di semplici idee, di amore vero, sempre e

comunque, e non ideale.

                                                                                     Nicola Arrigo