Nel Vangelo della terza domenica di quaresima l’evangelista Luca ci dice che “si presentarono alcuni a riferire a Gesù” di un drammatico fatto di cronaca che era stato di sicuro oggetto di tanti commenti e considerazioni.
Pilato aveva fatto uccidere un gruppo di Galilei con una tale ferocia che il loro sangue si era mischiato con quello degli animali da loro offerti in sacrificio. Gesù prende lo spunto da questo grave fatto di cronaca per sottolineare che la tragica “sorte” di quei Galilei non era da considerare una punizione per una loro eventuale maggiore colpevolezza rispetto a tutti gli altri Galilei.
Allo stesso modo le 18 persone che erano rimaste tragicamente seppellite sotto le macerie del crollo di una torre, non erano certamente più colpevoli rispetto a tutti gli altri abitanti di Gerusalemme. Gesù in questo modo dimostra che in entrambi i casi, si è di fronte non ad una giusta e meritata punizione, ma semplicemente a due tragici episodi: una crudele uccisione e un drammatico incidente.
In entrambi i casi domina il potere della morte che ogni uomo, fin dagli albori dell’umanità, vive come violenza inaccettabile. In questi casi, come credenti, anche noi ci poniamo la grande domanda di sempre: perché Dio permette tutto questo?
Gesù ci offre una prospettiva nuova che ci aiuta a guardare “diversamente” le tragedie e la stessa morte.
Il male che a volte sembra avere una drammatica prevalenza sul bene non potrà mai avere l’ultima parola. L’insegnamento di Gesù è un concreto aiuto a non immaginare tutt’intera la vita dentro un’aula di tribunale da dove Dio emette continuamente sentenze e infligge punizioni.
Chiunque è visitato dalla sofferenza è portato a chiedersi, non di rado: che cosa ho fatto di male per meritarmi questo castigo? Ma Gesù risponde: niente, non hai fatto niente.
Dio, infatti, non castiga, Dio non punisce, Dio è amore.
“Il nome di Dio è misericordia” ci direbbe Papa Francesco.
E per Dio “il bene possibile domani conta più della sterilità di ieri”.
Per questo come un contadino paziente e fiducioso rimane in attesa che possiamo finalmente portare quei buoni frutti che potranno finalmente rallegrare il suo cuore di Padre.
Intanto, con ostinata fiducia, non si stanca di ripetere: «voglio lavorare ancora un anno attorno a questo fico e forse porterà frutto».
Cerchiamo allora di accogliere docilmente l’invito alla conversione che ci viene da Gesù e ci accorgeremo con stupore che è davvero possibile guarire dalla sterilità propria di una vita priva di slancio e tante volte avvinta dalle insidie della mediocrità.
p. Enzo Smriglio