IL CONVENTO FRANCESCANO DI SAN FRATELLO

Inaugurazione del Chiostro restaurato

di Salvatore Di Fazio

Quella di oggi è veramente una giornata storica. Non perché stiamo inaugurando una nuova scuola o un nuovo edificio pubblico o una nuova strada o una nuova piazza.
E’ una memorabile giornata, dunque, perché stiamo inaugurando il restauro e il recupero definitivo di una fondamentale testimonianza della nostra memoria collettiva e della nostra storia locale, e non solo locale: si tratta di una pagina si storia scritta quattro secoli fa, fortunatamente scampata al disastro compiuto dalla frana del 1922, che ci riempie di orgoglio, perché – per nostra buona sorte – il monumento al quale ci riferiamo, per circa 130 anni, ha avuto la forza di resistere all’impudenza, all’insipienza e alla superficialità di tutti coloro che in questi 130 anni avrebbero dovuto gestirlo, difenderlo e curarlo come meritava e come si addice a qualunque espressione della civiltà di un popolo. E San Fratello è un popolo prima che una popolazione.
Io credo che tutti noi siamo felici, questa sera, come felice sono io che a questo chiostro sono affettivamente legato fin dalla nascita, perché qui ho trascorso parte della mia infanzia.

La Chiesa del Convento di Santa Maria

Per questo magnifico salvataggio in extremis dobbiamo essere grati, dunque, a Sua Eccellenza monsignor Zambito, vescovo di Patti, a Padre Di Piazza che finalmente ha visto premiata la sua fatica dopo decenni di lotte burocratiche, a Don Basilio Scalisi, che – in quanto responsabile dei Beni Culturali della Diocesi - ha svolto un ruolo fondamentale nell’opera di rivalutazione del complesso conventuale. E un grazie deve essere rivolto anche all’Assessorato Regionale ai Beni Culturali, alla Soprintendenza ai Beni Culturali di Messina, al Sindaco di San Fratello Giuseppe Ricca, all’architetto Salvo Lo Cicero, ai restauratori e alle maestranze che hanno messo in atto e portato a compimento il progetto di riappropriazione dell’intero Convento.
Finalmente, dopo scempi, devastazioni, demolizioni, distruzioni e furti di arredi sacri preziosissimi (ricordiamo il più grave di tutti: quello del 1982 che ha portato alla spoliazione del tesoro della chiesa, alla sottrazione cioè di 70 oggetti di straordinario valore economico e artistico, tra cui un ostensorio gotico del XV secolo, calici, preziose statuette, ex voto in oro e argento e altro ancora), proviamo la gioia – dicevo – di constatare fondamentali significativi cambiamenti di comportamento e di mentalità.

E’ certamente un diletto degli occhi e dello spirito vedere questa struttura monumentale illuminata con tale sapiente e suggestivo gioco di luci, vedere queste colonne ripulite e restituite al loro originale colore, vedere questo pavimento in cotto, questo pozzo centrale ricostruito e reso funzionale, vedere queste pareti e questo portico rimessi a nuovo, portico lungo il quale, per circa 200 anni, sotto le volte a crociera e sotto lo sguardo di vescovi, di santi, di suore, di beati e di angeli, dipinti in queste venti lunette da Fra’ Emanuele da Como,  tanti serafici monaci passeggiavano, leggevano, meditavano, pregavano, in assoluto silenzio, alla periferia del centro abitato, in mezzo alla campagna, in quanto il convento era agli inizi della sua fondazione abbastanza lontano dal paese di San Fratello.

 

FONDAZIONE
In merito alle origini, al capitolo XXXIII della monumentale opera storica, scritta nel 1600 e intitolata Paradiso Serafico, in cui sono narrate le vicende dei Francescani del Terz’ordine, il padre Randazzo asserisce  che questo “Convento di Santa Maria di Gesù nella terra di S. Fratello” fu fondato il 22 maggio dell’anno 1617, quando era re di Sicilia Filippo III e pontefice romano (da 12 anni) Paolo V.
In questo convento vivevano in quell’anno 15 monaci  in rigorosa osservanza. La prima pietra benedetta venne portata in processione dall’arciprete del tempo Don Giovanni Mondello nel corso di una grande manifestazione di giubilo a cui partecipò una gran folla di sanfratellani.
Il complesso monastico fu costruito per volontà e a spese della baronessa Donna Alfonsa Alarcon (o Larcan), moglie di Don Giovanni Soto, segretario di Don Giovanni d’Austria. I motivi della edificazione di quest’opera furono sia l’affetto che la singolare devozione che la baronessa portava al Beato Benedetto il Moro, nato in questa terra di San Fratello l’anno 1524 e morto a Palermo in fama di santità nel 1589, all’età di 65 anni.

La baronessa Donna Alfonsa Larcan, dopo avere portato a compimento in poco tempo l’opera e dopo avere distribuito tutti i suoi averi ai poveri, vestì l’abito di Santa Chiara, divenne anche lei monaca terziaria e visse una vita religiosa illibata, tanto che soleva chiamare i francescani di questo convento <<figli e fratelli suoi>>. Morì anche lei a Palermo in fama di santità e fu seppellita nella chiesa della Casa Professa della Compagnia di Gesù, dove tuttora riposa.
Nella chiesa di questo convento – continua il padre Randazzo - si trova un Crocifisso in legno, scolpito dal venerabile servo di Dio Fra’ Umile Pintorno da Petralia, religioso laico, ovunque noto per la sua santità di vita e per le sculture che venivano realizzate nella sua bottega.
In questo convento studiarono e vissero frati illustri per dottrina e rigore di vita religiosa. Tra questi: il venerabile terziario Arcangelo Brunello, di San Fratello, che morì nel 1626 servendo gli appestati di Nicosia, il padre Bonaventura, pure lui di San Fratello, che visse e morì in fama di santità, e il più noto di tutti, don Luigi Vasi, che  scrisse tanti libri e saggi storici su questo suo e nostro paese.
Nella chiesa di questo convento, inoltre, furono seppellite alcune terziarie francescane la cui vita eroica viene raccontata, nella ricordata opera del XVII secolo, come esemplare per devozione verso l’Ordine e verso San Benedetto il Moro.

 

LA STRUTTURA
Il convento di Santa Maria di Gesù rispetta una tipologia costruttiva – come osserva l’arch. Lo Cicero - molto frequente nel tardo ‘500, in evidente analogia con altri edifici conventuali dei Nebrodi. Esso, infatti, ha pianta quadrangolare e all’interno, in posizione quasi centrale, il chiostro, il quale costituisce un elemento di raccordo sia a livello funzionale sia a livello architettonico. Tutta l’opera fu costruita nello stesso periodo, fatta eccezione per alcune aggiunte effettuate in epoca successiva.
Il chiostro ha un’area di 150 metri di superficie. Il perimetro del portico è delimitato da 20 colonne in pietra rossa locale che sostengono archi a tutto sesto e volte a crociera. Nelle quattro pareti interne sono visibili (oggi purtroppo solo in parte) 20 lunette che raffigurano vite di santi francescani e fatti concernenti i frati dell’ordine.
Le lunette furono dipinte da Fra’ Emanuele da Como, un artista di chiara fama, che fu autore di una ricchissima produzione di opere pittoriche a carattere sacro sparse in tutta Italia. E le ragioni non mancano. La committenza  in Sicilia e sui Nebrodi era notevolissima e i Francescani erano particolarmente sensibili e disponibili ad affidare agli artisti, specialmente se appartenenti al loro ordine, manufatti di arte figurativa. Basterebbe per tutti ricordare il grandissimo Antonello da Messina che, per testamento, chiese di essere seppellito nel convento di Santa Maria di Gesù, nella sua Città, “vestito del saio di questi frati”.

Di Fra’ Emanuele da Como è doveroso, in questa opportuna circostanza, ricordare alcune fondamentali notizie: nacque in quella città della Lombardia nel 1625. Fin da fanciullo, vedendo certi pittori che eseguivano alcuni affreschi nella cattedrale di Como, dov’era nato, si lasciò prendere da una così forte passione per la pittura che divenne, senza alcuna difficoltà, un esponente tra i più autorevoli dell’epoca.
Abbracciò giovanissimo l’Ordine Francescano consacrandosi come confratello laico, senza l’obbligo di vestire il saio monacale. Cominciò la sua attività di pittore nella sua stessa città dove dipinse una “Ultima Cena” nel convento di S. Croce, opera che poi venne trasferita nel Seminario Vescovile della stessa Como.
La sua formazione artistica avvenne intorno al 1665 a Messina. Qui  frequentò la bottega di Agostino Scilla, pittore e scienziato, che presto divenne la scuola più fiorente e più frequentata fra le tante altre del territorio.
Nel periodo della sua permanenza in Sicilia Fra’ Emanuele eseguì a Messina gli affreschi del convento di Santa Maria di Porto Salvo (convento che fu distrutto dal terremoto del 1908) e opere varie richieste da committenti religiosi dell’area dei Nebrodi.

Dipinse inoltre nella chiesa Madre di Enna un trittico che raffigura Gesù in croce con Mosé e Geremia, e un quadro con la Madonna degli Angeli che si conserva nella omonima chiesa di Petralia Sottana.
Dopo essere stato a Torino per realizzare la pala dell’altare maggiore raffigurante la Natività, Fra’ Emanuele si trasferì ad Assisi dove dipinse i Quattro Evangelisti in una parte della cupola grande della Basilica. Sempre ad Assisi, Fra’ Emanuele dipinse, all’interno della cattedrale di San Rufino, una Ultima Cena, che fu collocata sopra l’organo.
Ritornato a Como, affrescò nel 1670 il chiostro e i corridoi del convento di Dongo, un paese di quella provincia, dove ancora si possono ammirare le sue opere, perché in buono stato di conservazione.
Subito dopo si trasferì nel celebre santuario della Verna, in Toscana, dove San Francesco nel 1224 aveva ricevuto le stigmate e dove aveva composto il famoso Cantico delle Creature.

Qui realizzò una teoria di affreschi composta da 21 quadri di 3 metri ciascuno e 73 scene relative alla vita prodigiosa del Santo Poverello. E dipinse altre opere ancora, tra cui la Madonna della Scala.
Nel 1672 lo troviamo a Roma, nel convento di Santo Isidoro al Pincio per dipingere l’Aula Magna della Scuola Francescana. Qui Fra’ Emanuel raffigurò, alle spalle della cattedra, il Padre Eterno con la Vergine Immacolata, il filosofo Duns Scoto, San Francesco, S. Antonio e San Bonaventura. Sulle altre pareti sono rappresentati vescovi irlandesi e monaci che studiano all’interno delle loro celle. Altri affreschi si trovano nella chiesa di San Francesco a Ripa, sede della provincia francescana.
Negli anni 1674-1701 l’artista, ormai conosciuto in tutta Italia, seguito da numerosi discepoli, frati pittori e artigiani, fece il giro dei conventi di Roma e della provincia lasciando ovunque testimonianze della sua creatività: Frascati, Mentana, Salivàna, Poggio di Soriano ecc.
Nel 1686 si recò a Parma dove dipinse il Martirio d San Placido nella chiesa dell’abbazia di San Giovanni. A Rocca Antica dipinse una Cena di nostro Signore per il convento di quella città e una grande tela con San Francesco, Santa Chiara e Angeli.
Nel 1696 cominciò ad affrescare il refettorio del convento di San Francesco a Ripa e poi il chiostro dello stesso convento dove rappresentò i grandi personaggi del Terz’ordine: cardinali, vescovi, e frati  che hanno dato lustro ai Francescani.
Fra’ Emanuele morì nel 1701 all’età di 76 anni.

La sua pittura mostra una spontaneità che lo avvicina al Beato Angelico, anche se non ha la statura artistica di questo genio dell’arte italiana. Sotto l’aspetto strutturale – scrive il Mauceri, storico dell’arte, - questo pittore “rivela una (grande) padronanza del disegno e della prospettiva, che conferiscono alle scene movimento e vivacità”.  I singoli episodi della vita di San Francesco, per esempio, sono racchiusi in cornici di gusto classico. Gli angeli e i putti sono sempre corpulenti e vivaci. Festoni di fiori e di frutta appesi alle cornici e alle volute danno un tocco festoso alle diverse rappresentazioni.
Nelle moltissime tele a olio che eseguì e che erano destinate a pale d’altare, l’artista rispetta i canoni della tradizione iconografica barocca del suo tempo popolando i suoi quadri di angeli, di nuvole, di fiori. Negli affreschi, invece, che eseguiva per i chiostri, le chiese, i refettori, le aule magne, l’artista si mostra molto più autonomo. Le sue pennellate sono larghe e decise, ma rivelano una certa freddezza cromatica.
Gli affreschi di questo chiostro, andati purtroppo in rovina, raffiguravano santi e martiri francescani di cui sopravvivono poche testimonianze illeggibili, o parzialmente leggibili. Era questo il pittore di cui abbiamo distrutto in pochi decenni il ciclo pittorico sanfratellano.

 

LE MOLTE E CONTINUE AGGRESSIONI
La storia di questo convento è rivelatrice di una cultura e di una civiltà poco sensibili, nel passato,  alla salvaguardia del proprio patrimonio artistico. Ne tratteggiamo le linee essenziali perché essa sia di ammonimento alle presenti e future generazioni che devono avere, da oggi in poi, un grandissimo rispetto per la parte di storia che è scritta in queste pietre.
Dopo l’unificazione d’Italia del 1861, e dopo l’emanazione della sciagurata legge sulla espropriazione dei beni ecclesiastici, anche questo chiostro, questo convento, la sua ricca biblioteca e i locali che ne fanno parte – ad eccezione della chiesa – divennero beni dello Stato. E fu l’inizio di un rovinoso processo di devastazioni e di offese incredibilmente assurde.
Le celle dei frati, quelle che si affacciano sul portico di questo chiostro, diventarono celle per i carcerati. In alcune di esse si vedono tuttora le sbarre di ferro infisse nei robusti muri che stanno intorno a noi. Durante la guerra il convento fu occupato dai militari che ne fecero ulteriore scempio.
Il complesso monastico fu anche sede delle scuole elementari, della banda musicale, della Caserma dei Carabinieri e delle più svariate associazioni e per  lunghi anni fu condominio dei senzatetto e degli indigenti, che lo ridussero a ghetto.  Il fumo della legna e il vapore acqueo che fuoriusciva  dalle pentole collocate sotto il naso dei santi dipinti in queste lunette ora scomparse, rappresentarono l’estremo oltraggio inferto dalle autorità locali al Chiostro secentesco.
A partire dal 1948, inoltre, i locali che si affacciano su questo chiostro venivano usati alcuni come magazzini per l’olio ricavato dagli uliveti della parrocchia, altri come  sezioni elettorali.
Sugli affreschi ancora in buono stato di conservazione e in special modo sulla faccia dei santi francescani dipinti su queste pareti, le diverse amministrazioni comunali permettevano che si attaccassero con la colla i manifesti pubblicitari dei vari partiti politici in gara, operando in questo modo ulteriori insulti a quelli precedentemente inflitti.
Il pavimento del chiostro, dissestato e ridotto a pozzanghere di fango quando pioveva, era diventato un campetto sportivo. Si veniva qui a giocare al pallone. E il pallone, infangato o bagnato, andava a sbattere sulle vesti dorate degli angeli e sui corpi dei martiri affrescati di Fra’ Emanuele da Como, come a fargli dispetto di essere venuto qui ad abbellire questo luogo di santità e di vita spirituale.

In questo chiostro si faceva ogni anno la marchiatura dei vitelli con sigla personalizzata in ferro battuto, reso incandescente qui stesso. I più gravi atti di insolenza ai danni di questo monumento – monumento eretto non solo in onore di San Benedetto e del suo ordine religioso, ma anche monumento della storia di San Fratello – risalgono agli anni Cinquanta allorché una ditta appaltatrice di alcuni lavori pubblici asportò i marmi che rivestivano il basamento di questo colonnato e li sostituì con rozzi mattoni pressati, nell’assoluto silenzio e nella totale indifferenza di un intero paese e delle sue autorità.
Il convento divenne così un rudere e questo chiostro un’immagine vivente ed eloquente del dissesto globale e del degrado spirituale di una intera comunità.
Il primo timido passo verso il recupero fu compiuto nei primi anni Settanta con la collocazione del cancello in ferro battuto che pose fine al vandalismo gratuito e scandaloso dopo la evacuazione dei suoi ultimi inquilini.
Ecco perché – come dicevo all’inizio – oggi è una giornata storica: storica perché celebriamo l’inizio di un’epoca nuova, in cui il paese torna a riappropriarsi dei suoi beni culturali, cioè della sua identità, della sua civiltà e della sua memoria storica. Ancora resta moltissimo da fare, ma ho la certezza che la nostra cultura è cambiata e che ormai ci sono tutte le condizioni civili per restituire a questo paese almeno una parte di quello che gli è stato rubato. Non resta che augurarci che questo chiostro venga, da oggi in poi, custodito, salvaguardato e valorizzato come merita  e che torni a diventare un luogo di cultura e di promozione umana ad onore di San Francesco di Assisi e di San Benedetto il Moro.

 

 

 



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