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Per questo magnifico
salvataggio in extremis dobbiamo essere grati, dunque, a Sua
Eccellenza monsignor Zambito, vescovo di Patti, a Padre Di
Piazza che finalmente ha visto premiata la sua fatica dopo
decenni di lotte burocratiche, a Don Basilio Scalisi, che –
in quanto responsabile dei Beni Culturali della Diocesi - ha
svolto un ruolo fondamentale nell’opera di rivalutazione del
complesso conventuale. E un grazie deve essere rivolto
anche all’Assessorato Regionale ai Beni Culturali, alla
Soprintendenza ai Beni Culturali di Messina, al Sindaco di
San Fratello Giuseppe Ricca, all’architetto Salvo Lo Cicero,
ai restauratori e alle maestranze che hanno messo in atto e
portato a compimento il progetto di riappropriazione
dell’intero Convento.
Finalmente, dopo scempi, devastazioni, demolizioni,
distruzioni e furti di arredi sacri preziosissimi
(ricordiamo il più grave di tutti: quello del 1982 che ha
portato alla spoliazione del tesoro della chiesa, alla
sottrazione cioè di 70 oggetti di straordinario valore
economico e artistico, tra cui un ostensorio gotico del XV
secolo, calici, preziose statuette, ex voto in oro e argento
e altro ancora), proviamo la gioia – dicevo – di constatare
fondamentali significativi cambiamenti di comportamento e di
mentalità.
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E’ certamente un diletto degli occhi e dello
spirito vedere questa struttura monumentale illuminata con
tale sapiente e suggestivo gioco di luci, vedere queste
colonne ripulite e restituite al loro originale colore,
vedere questo pavimento in cotto, questo pozzo centrale
ricostruito e reso funzionale, vedere queste pareti e questo
portico rimessi a nuovo, portico lungo il quale, per circa
200 anni, sotto le volte a crociera e sotto lo sguardo di
vescovi, di santi, di suore, di beati e di angeli, dipinti
in queste venti lunette da Fra’ Emanuele da Como, tanti
serafici monaci passeggiavano, leggevano, meditavano,
pregavano, in assoluto silenzio, alla periferia del centro
abitato, in mezzo alla campagna, in quanto il convento era
agli inizi della sua fondazione abbastanza lontano dal paese
di San Fratello.
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FONDAZIONE
In merito alle origini, al capitolo XXXIII della monumentale
opera storica, scritta nel 1600 e intitolata Paradiso
Serafico, in cui sono narrate le vicende dei Francescani del
Terz’ordine, il padre Randazzo asserisce che questo
“Convento di Santa Maria di Gesù nella terra di S. Fratello”
fu fondato il 22 maggio dell’anno 1617, quando era re di
Sicilia Filippo III e pontefice
romano (da 12 anni) Paolo V.
In questo convento vivevano in quell’anno 15 monaci in
rigorosa osservanza. La prima pietra benedetta venne portata
in processione dall’arciprete del tempo Don Giovanni
Mondello nel corso di una grande manifestazione di giubilo a
cui partecipò una gran folla di sanfratellani.
Il complesso monastico fu costruito per volontà e a spese
della baronessa Donna Alfonsa Alarcon (o Larcan), moglie di
Don Giovanni Soto, segretario di Don Giovanni d’Austria. I
motivi della edificazione di quest’opera furono sia
l’affetto che la singolare devozione che la baronessa
portava al Beato Benedetto il Moro, nato in questa terra di
San Fratello l’anno 1524 e morto a Palermo in fama di
santità nel 1589, all’età di 65 anni. |
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La baronessa Donna Alfonsa Larcan, dopo avere portato a
compimento in poco tempo l’opera e dopo avere distribuito
tutti i suoi averi ai poveri, vestì l’abito di Santa Chiara,
divenne anche lei monaca terziaria e visse una vita
religiosa illibata, tanto che soleva chiamare i francescani
di questo convento <<figli e fratelli suoi>>. Morì anche lei
a Palermo in fama di santità e fu seppellita nella chiesa
della Casa Professa della Compagnia di Gesù, dove tuttora
riposa.
Nella chiesa di questo convento – continua il padre Randazzo
- si trova un Crocifisso in legno, scolpito dal venerabile
servo di Dio Fra’ Umile Pintorno da Petralia, religioso
laico, ovunque noto per la sua santità di vita e per le
sculture che venivano realizzate nella sua bottega.
In questo convento
studiarono e vissero frati illustri per dottrina e rigore di
vita religiosa. Tra questi: il venerabile terziario
Arcangelo Brunello, di San Fratello, che morì nel 1626
servendo gli appestati di Nicosia, il padre Bonaventura,
pure lui di San Fratello, che visse e morì in fama di
santità, e il più noto di tutti, don Luigi Vasi, che
scrisse tanti libri e saggi storici su questo suo e nostro
paese.
Nella chiesa di questo convento, inoltre, furono seppellite
alcune terziarie francescane la cui vita eroica viene
raccontata, nella ricordata opera del XVII secolo, come
esemplare per devozione verso l’Ordine e verso San Benedetto
il Moro.
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LA STRUTTURA
Il convento di Santa Maria di Gesù rispetta una
tipologia costruttiva – come osserva l’arch. Lo Cicero -
molto frequente nel
tardo ‘500, in evidente analogia con altri edifici
conventuali dei Nebrodi. Esso, infatti, ha pianta
quadrangolare e all’interno, in posizione quasi centrale, il
chiostro, il quale costituisce un elemento di raccordo sia a
livello funzionale sia a livello architettonico. Tutta
l’opera fu costruita nello stesso periodo, fatta eccezione
per alcune aggiunte effettuate in epoca successiva.
Il chiostro ha un’area di 150 metri di superficie. Il
perimetro del portico è delimitato da 20 colonne in pietra
rossa locale che sostengono archi a tutto sesto e volte a
crociera. Nelle quattro pareti interne sono visibili (oggi
purtroppo solo in parte) 20 lunette che raffigurano vite di
santi francescani e fatti concernenti i frati dell’ordine.
Le lunette furono dipinte da Fra’ Emanuele da Como, un
artista di chiara fama, che fu autore di una ricchissima
produzione di opere pittoriche a carattere sacro sparse in
tutta Italia. E le ragioni non mancano. La committenza in
Sicilia e sui Nebrodi era notevolissima e i Francescani
erano particolarmente sensibili e disponibili ad affidare
agli artisti, specialmente se appartenenti al loro ordine,
manufatti di arte figurativa. Basterebbe per tutti ricordare
il grandissimo Antonello da Messina che, per testamento,
chiese di essere seppellito nel convento di Santa Maria di
Gesù, nella sua Città, “vestito del saio di questi frati”.
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Di Fra’ Emanuele da Como è doveroso, in questa opportuna
circostanza, ricordare alcune fondamentali notizie: nacque
in quella città della Lombardia nel 1625. Fin da fanciullo,
vedendo certi pittori che eseguivano alcuni affreschi nella
cattedrale di Como, dov’era nato, si lasciò prendere da una
così forte passione per la pittura che divenne, senza alcuna
difficoltà, un esponente tra i più autorevoli dell’epoca.
Abbracciò giovanissimo l’Ordine Francescano consacrandosi
come confratello laico, senza l’obbligo di vestire il saio
monacale. Cominciò la sua attività di pittore nella sua
stessa città dove dipinse una “Ultima Cena” nel
convento di S. Croce, opera che poi venne trasferita nel
Seminario Vescovile della stessa Como.
La sua formazione artistica avvenne intorno al 1665 a
Messina. Qui frequentò la bottega di Agostino Scilla,
pittore e scienziato, che presto divenne la scuola più
fiorente e più frequentata fra le tante altre del
territorio.
Nel periodo della sua permanenza in Sicilia Fra’ Emanuele
eseguì a Messina gli affreschi del convento di Santa Maria
di Porto Salvo (convento che fu distrutto dal terremoto del
1908) e opere varie richieste da committenti religiosi
dell’area dei Nebrodi. |
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Dipinse inoltre nella chiesa Madre di Enna un trittico che
raffigura Gesù in croce con Mosé e Geremia, e
un quadro con la Madonna degli Angeli che si conserva
nella omonima chiesa di Petralia Sottana.
Dopo essere stato a Torino per realizzare la pala
dell’altare maggiore raffigurante la Natività, Fra’
Emanuele si trasferì ad Assisi dove dipinse i Quattro
Evangelisti in una parte della cupola grande della
Basilica. Sempre ad Assisi, Fra’ Emanuele dipinse,
all’interno della cattedrale di San Rufino, una Ultima
Cena, che fu collocata sopra l’organo.
Ritornato a Como, affrescò nel 1670 il chiostro e i corridoi
del convento di Dongo, un paese di quella provincia, dove
ancora si possono ammirare le sue opere, perché in buono
stato di conservazione.
Subito dopo si trasferì nel celebre santuario della Verna,
in Toscana, dove San Francesco nel 1224 aveva ricevuto le
stigmate e dove aveva composto il famoso Cantico delle
Creature. |
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Qui realizzò una teoria di affreschi
composta da 21 quadri di 3 metri ciascuno e 73 scene relative alla
vita prodigiosa del Santo Poverello. E dipinse altre opere ancora,
tra cui la Madonna della Scala.
Nel 1672 lo troviamo a Roma, nel convento di Santo Isidoro al
Pincio per dipingere l’Aula Magna della Scuola Francescana. Qui Fra’
Emanuel raffigurò, alle spalle della cattedra, il Padre Eterno
con la Vergine Immacolata, il filosofo Duns Scoto, San
Francesco, S. Antonio e San Bonaventura. Sulle altre pareti sono
rappresentati vescovi irlandesi e monaci che studiano all’interno
delle loro celle. Altri affreschi si trovano nella chiesa di San
Francesco a Ripa, sede della provincia francescana.
Negli anni 1674-1701 l’artista, ormai conosciuto in tutta Italia,
seguito da numerosi discepoli, frati pittori e artigiani, fece il
giro dei conventi di Roma e della provincia lasciando ovunque
testimonianze della sua creatività: Frascati, Mentana, Salivàna,
Poggio di Soriano ecc.
Nel 1686 si recò a Parma dove dipinse il Martirio d San Placido
nella chiesa dell’abbazia di San Giovanni. A Rocca Antica dipinse
una Cena di nostro Signore per il convento di quella città e
una grande tela con San Francesco, Santa Chiara e Angeli.
Nel 1696 cominciò ad affrescare il refettorio del convento di San
Francesco a Ripa e poi il chiostro dello stesso convento dove
rappresentò i grandi personaggi del Terz’ordine: cardinali, vescovi,
e frati che hanno dato lustro ai Francescani.
Fra’ Emanuele morì nel 1701 all’età di 76 anni. |
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La sua pittura mostra una spontaneità che lo avvicina al Beato
Angelico, anche se non ha la statura artistica di questo genio
dell’arte italiana. Sotto l’aspetto strutturale – scrive il
Mauceri, storico dell’arte, - questo pittore “rivela una
(grande) padronanza del disegno e della prospettiva, che
conferiscono alle scene movimento e vivacità”. I singoli
episodi della vita di San Francesco, per esempio, sono racchiusi in
cornici di gusto classico. Gli angeli e i putti sono sempre
corpulenti e vivaci. Festoni di fiori e di frutta appesi alle
cornici e alle volute danno un tocco festoso alle diverse
rappresentazioni.
Nelle moltissime tele a olio che eseguì e che erano destinate a pale
d’altare, l’artista rispetta i canoni della tradizione iconografica
barocca del suo tempo popolando i suoi quadri di angeli, di nuvole,
di fiori. Negli affreschi, invece, che eseguiva per i chiostri, le
chiese, i refettori, le aule magne, l’artista si mostra molto più
autonomo. Le sue pennellate sono larghe e decise, ma rivelano una
certa freddezza cromatica.
Gli affreschi di questo chiostro, andati purtroppo in rovina,
raffiguravano santi e martiri francescani di cui sopravvivono poche
testimonianze illeggibili, o parzialmente leggibili. Era questo il
pittore di cui abbiamo distrutto in pochi decenni il ciclo pittorico
sanfratellano.
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LE MOLTE E CONTINUE
AGGRESSIONI
La storia di questo convento è rivelatrice di una
cultura e di una civiltà poco sensibili, nel passato, alla
salvaguardia del proprio patrimonio artistico. Ne
tratteggiamo le linee essenziali perché essa sia di
ammonimento alle presenti e future generazioni che devono
avere, da oggi in poi, un grandissimo rispetto per la parte
di storia che è scritta in queste pietre.
Dopo l’unificazione d’Italia del 1861, e dopo l’emanazione
della sciagurata legge sulla espropriazione dei beni
ecclesiastici, anche questo chiostro, questo convento, la
sua ricca biblioteca e i locali che ne fanno parte – ad
eccezione della chiesa – divennero beni dello Stato. E fu
l’inizio di un rovinoso processo di devastazioni e di offese
incredibilmente assurde.
Le celle dei frati, quelle che si affacciano sul portico di
questo chiostro, diventarono celle per i carcerati. In
alcune di esse si vedono tuttora le sbarre di ferro infisse
nei robusti muri che stanno intorno a noi. Durante la guerra
il convento fu occupato dai militari che ne fecero ulteriore
scempio.
Il complesso monastico fu anche sede delle scuole
elementari, della banda musicale, della Caserma dei
Carabinieri e delle più svariate associazioni e per lunghi
anni fu condominio dei senzatetto e degli indigenti, che lo
ridussero a ghetto. Il fumo della legna e il vapore acqueo
che fuoriusciva dalle pentole collocate sotto il naso dei
santi dipinti in queste lunette ora scomparse,
rappresentarono l’estremo oltraggio inferto dalle autorità
locali al Chiostro secentesco.
A partire dal 1948, inoltre, i locali che si affacciano su
questo chiostro venivano usati alcuni come magazzini per
l’olio ricavato dagli uliveti della parrocchia, altri come
sezioni elettorali.
Sugli affreschi ancora in buono stato di conservazione e in
special modo sulla faccia dei santi francescani dipinti su
queste pareti, le diverse amministrazioni comunali
permettevano che si attaccassero con la colla i manifesti
pubblicitari dei vari partiti politici in gara, operando in
questo modo ulteriori insulti a quelli precedentemente
inflitti.
Il pavimento del chiostro, dissestato e ridotto a
pozzanghere di fango quando pioveva, era diventato un
campetto sportivo. Si veniva qui a giocare al pallone. E il
pallone, infangato o bagnato, andava a sbattere sulle vesti
dorate degli angeli e sui corpi dei martiri affrescati di
Fra’ Emanuele da Como, come a fargli dispetto di essere
venuto qui ad abbellire questo luogo di santità e di vita
spirituale. |
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In questo chiostro si faceva ogni anno la marchiatura dei
vitelli con sigla personalizzata in ferro battuto, reso
incandescente qui stesso. I più gravi atti di insolenza ai
danni di questo monumento – monumento eretto non solo in
onore di San Benedetto e del suo ordine religioso, ma anche
monumento della storia di San Fratello – risalgono agli anni
Cinquanta allorché una ditta appaltatrice di alcuni lavori
pubblici asportò i marmi che rivestivano il basamento di
questo colonnato e li sostituì con rozzi mattoni pressati,
nell’assoluto silenzio e nella totale indifferenza di un
intero paese e delle sue autorità.
Il convento divenne così un rudere e questo chiostro
un’immagine vivente ed eloquente del dissesto globale e del
degrado spirituale di una intera comunità.
Il primo timido passo verso il recupero fu compiuto nei
primi anni Settanta con la collocazione del cancello in
ferro battuto che pose fine al vandalismo gratuito e
scandaloso dopo la evacuazione dei suoi ultimi inquilini.
Ecco perché – come dicevo all’inizio – oggi è una giornata
storica: storica perché celebriamo l’inizio di un’epoca
nuova, in cui il paese torna a riappropriarsi dei suoi beni
culturali, cioè della sua identità, della sua civiltà e
della sua memoria storica. Ancora resta moltissimo da fare,
ma ho la certezza che la nostra cultura è cambiata e che
ormai ci sono tutte le condizioni civili per restituire a
questo paese almeno una parte di quello che gli è stato
rubato. Non resta che augurarci che questo chiostro venga,
da oggi in poi, custodito, salvaguardato e valorizzato come
merita e che torni a diventare un luogo di cultura e di
promozione umana ad onore di San Francesco di Assisi e di
San Benedetto il Moro. |
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