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dal Catalogo della

Via Lucis


Meditazione di Mario Luzi

Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto,
ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.
È solo una stazione per il figlio Tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.
Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.
La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario
Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.

Padre, non giudicarlo
questo mio parlarti umano quasi delirante,
accoglilo come un desiderio d’amore,
non guardare alla sua insensatezza.
Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà
eppure talvolta l’ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.
Quando saremo in cielo ricongiunti
sarà stata una prova grande
ed essa non si perde nella memoria dell’eternità.
Ma da questo stato umano d’abiezione
vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.
Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,
ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.
Qui termina veramente il cammino.
Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità.
Ma tu sai questo mistero. Tu solo.


I - La condanna di Fortunato Pasqualino

Già: chi condannò Gesù a morte? A parte Dio Padre, che nell’alto dei cieli avrebbe deciso di sacrificare il Figlio per amore di questo umano mondo – calice amaro che sul Getsemani con lacrime di sangue Gesù implorò gli fosse risparmiato –, però, in terra, chi ne volle la fine crudelissima in croce?
Stando alle rappresentazioni sacre tradizionali e alle odierne colossali versioni cinematografiche, sarebbe stata la gente, la folla, a gridare che egli venisse crocifisso e a costringere perciò Pilato a concedere l’esecuzione del triste verdetto già espresso dal Sinedrio e confermato all’unanimità dalle voci del popolo.
Ed invece, a rigore di una rilettura attenta dei Vangeli, non fu affatto il popolo, che anzi fu escluso perché si temeva che fosse – come era – dalla parte di Gesù. Tanto il Sinedrio quanto Pilato infatti temevano il popolo. È chiaramente scritto nei Vangeli Sinottici.
Il Sinedrio sapeva benissimo che il popolo era con Gesù; che molti Giudei gli erano andati incontro a Betania, dov’era risorto Lazzaro, e che avevano creduto in Lui.
I grandi sacerdoti si chiesero: Se lo lasciamo fare tutti crederanno in lui, e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione. Il Sinedrio temeva non tanto il popolo in sé quanto i Romani. Caifa allora sentenzia: È meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca l’intera nazione.
Però occorreva liquidare il caso Gesù alla chetichella, evitando, il più possibile di fare notizia o storia. Più che un processo si trattò di un affare, che conveniva sia al Sinedrio sia a Pilato.
Ma il grido famoso ci fu, sì o no? Ci fu di certo. Però a lanciarlo non fu la gente, il popolo. Nel IV Vangelo si specifica che furono i gran sacerdoti e le guardie a gridare crocifiggi (lo), crocifiggi (lo): forse una ventina di persone. Purtroppo però già nei Vangeli Sinottici il gruppetto di sacerdoti e di loro guardie si denominò indebitamente "folla", condannando così due innocenti: Gesù e il suo popolo, costretto anch’esso a patire lungo una Via Crucis fatta di persecuzioni, di ghetti, fino all’olocausto.


II - L'imposizione della croce di Giacomo Ribaudo

L’utilizzo della croce come strumento di tortura o di morte è divenuto sempre più raro. O è simbolo di una fede e distintivo di appartenenza o, più frequentemente, sinonimo di un male che incombe sulla vita umana, come una forza ineluttabile di cui il riferimento a Cristo rimane più o meno latente.
C’è quando una croce è ereditata (povertà, ignoranza, alcoolismo, AIDS, talassemia). E non si reperiscono mezzi per scrollarsela.
Alla pesantezza di essa si aggiunge l’amarezza di non potere colpevolizzare la causa perché il genitore è pure vittima soggiacente a una condizione cronica di irreversibilità.
C’è quando la incontri e ti si appiccica con dei tentacoli o delle spire che non ti soffocano ma ti procurano un infinito fastidio, per superare il quale non esiste altro rimedio che la rassegnazione alla convivenza.
E se ci pensi non ti va di vivere né di morire, perché vivere è un po’ morire e morire è la tentazione (amore-odio) del nulla.
Ma i singoli sono soltanto i capillari periferici di croci grandi quanto le etnie, le isole, le nazioni, i continenti, gli emisferi.
C’è un vantaggio-svantaggio rispetto al passato: le croci giganti che sovrastano sulle macerie delle radiazioni e dei cannoni, come dei terremoti e dei golpe, sono patrimonio comune e comune è la luce della speranza che rinasce dopo ogni notte, come stella del mattino.
Il contesto vitale di oggi ci chiede di sopravvivere da eroi. Gli eroi (esistono ancora e per lo più anonimi) la croce se la scelgono e la abbracciano. La amano perfino. Non perché siano masochisti, ma perché il potenziale energetico di amore che portano dentro è in grado di trasfigurarla e di renderla strumento di liberazione.
Uomini e donne di qualsiasi credo, per cui la croce diventa un aratro atto a tracciare solchi per semine di speranza, ponte per congiungere gruppi umani estranei o ostili, chiave che apre cancelli di bunker o giardini blindati dall’egoismo di qualcuno.
Cristo non è solo il Dio-Uomo dei cristiani. È un Uomo. Ogni uomo infatti, se vuole, può apprendere da lui che portare la croce, se si è ricchi dentro, non è servilismo che lacera la dignità, ma servizio per offrire corredi e spazi di libertà, oltre che di solidarietà, e fierezza di essere, servendo, veri uomini.


III - La prima caduta di Nino Barraco

No, questa non è la prima caduta.
La caduta, l’abbassamento, l’umiliazione sono datate anzitempo. In quella decisione di mortificare l’infinito, di incarnare l’uomo, il tempo, la storia, di condividere la terra.
Allora, è stata la prima caduta.
Evento precipitato dal cielo, inimmaginabile perizia di amore, nel metodo più umano della carne, nel grembo di una ragazza.
Una fecondazione con i segni, i percorsi, i mesi della creazione dell’uomo. Con il sangue, le ossa, il latte.
No, questa non è la prima caduta.
La caduta incomincia da allora, dalla volontà di consegnarsi all’uomo, di lasciarsi sciupare, sprecare, di lasciarsi sporcare.
Un Dio che si incarna nella precarietà, che decade dalla sua situazione di Dio. Qui è la prima caduta. Verme, reietto, dinanzi al quale ci si coprirà la faccia, schiantato dall’onnipotenza.
I Salmi, Isaia, le Lamentazioni, tutta l’implorazione dei secoli si raggruma sulla ferita di questa caduta. Enigma, ulcera di lamento, di nero frantumato, precipizio di un Dio nell’abisso del mondo.
Uomo anonimo, non Dio. È il capovolgimento, l’inaudita situazione di un Dio-Uomo.
Devastato dalla iniquità degli uomini, con il peccato degli uomini tra le mani, sotto la sferza, lo scherno, l’assenzio degli uomini.
Nel cataclisma del tempo, nella follia degli olocausti, nell’arroganza delle violenze. Nella stupidità di quanti troviamo facile credere, e non abbiamo meraviglia, sgomento, orrore, scandalo, innamoramento.
No, la grande questione del mondo non è Dio, è la caduta di questo Dio.
È il caso Gesù, che resta la domanda drammatica della fede. Il mistero di un Dio infinito, indefinibile, che si fa voce, strada, che si perde nel tempo, che diventa frammento di umanità, che si colloca nel punto più basso della povertà e della morte.
La sofferenza sostanziale di un Dio che cade, sì, sulla via della croce, ma che è, già, caduto prima, sulla terra. Dal giorno di Natale.


IV - L'incontro con la madre di Ina Siviglia

Straziato nella carne, ma più ancora nello spirito, coronato di spine, accasciato sotto il peso della croce, tra capelli scomposti e rivoli di sangue, in mezzo alla selva della folla urlante e a sguardi indifferenti, Gesù intravede un volto – il più caro tra tutti i volti – quello della Madre, un volto cereo, di una bellezza antica e sempre nuova. Stravolta ma non stordita dal dolore, con inaudita dolorosa lucidità e consapevolezza, Maria avanza silenziosa, sospinta dall’onda della folla arrabbiata.
È al limite delle sue forze, sente di non farcela… ma l’amore è più forte, la tenerezza per il Figlio innocente, ingiustamente condannato, vince sulla sua estrema debolezza, sulla paura, sull’orrore. Sta lì, presente, in piedi accanto al frutto del suo grembo, al suo bambino – per Lei madre sempre bambino – lanciandogli un unico silenzioso messaggio: "Sono con Te, non ti lascio solo, mai, qualunque cosa accada!".
Intuisce il tragico esito finale, ma forte di una forza non sua, vince la tentazione di fuggire, di urlare, di lasciarsi andare: avanza, mostrando una mirabile, regale dignità nel soffrire. Non parole tra Lei e il Figlio, solo sguardi che si incrociano nell’ora estrema della prova, comunicandosi angoscia ed eterna fedeltà, mani che in qualche momento si sfiorano con una indicibile dolcezza, scambiandosi il calore di una inaudita vicinanza ora nel dolore come in tanti momenti precedenti nella gioia.
Passo dopo passo le risuonano all’orecchio le misteriose parole, solennemente pronunziate dal vecchio Simeone al tempio, parole che Ella aveva gelosamente conservato, senza mai comprenderle fino in fondo, pur continuando a meditarle nel Suo cuore: Egli è qui per la rovina e la resurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a Te una spada trafiggerà l’anima.
"È giunta quest’ora" pensa tra sé e sé la Vergine addolorata, e mai come in quel momento sente di essere una piccolissima tessera di un mosaico che la ingloba, superandola di gran lunga in un disegno divino più alto di ogni umana comprensione: Le sue vie non sono le nostre vie. Ancora una volta, ma questa volta con immane sforzo, si abbandona alla divina volontà ripetendo con tutte le sue forze, con tutto il suo cuore e con tutta la sua mente: Fiat voluntas tua.
Il suo sguardo, tra le lacrime, si posa sul Figlio adorato, sul volto di quel piccolo nato nell’umile grotta, dinanzi al quale degli angeli hanno cantato gloria e i pastori sono accorsi riconoscendone la misteriosa regalità.
Una paura finora sconosciuta si impadronisce di Lei e in una contemporaneità inenarrabile le sovvengono, a tratti, con sempre maggiore chiarezza, le contraddittorie profezie messianiche: Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emanuele; Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia.
È Lui, il Suo Gesù, il Messia, l’atteso delle genti, il Dio potente, l’Agnello innocente, l’Uomo dei dolori. Il Figlio d’un tratto guarda la Madre con una intensità mai finora espressa: intuisce che Ella ha compreso e che a fatica sta accettando, nel buio della fede, il misterioso piano del Padre. Tace Maria, straziata da un dolore senza misura, e prega: dinanzi ad un evento scritto sin dall’eternità per la salvezza dell’umanità a Lei, la piena di grazia, la beata fra tutte le donne, non resta che abbandonarsi in un silenzio orante e adorante.


V - Il Cireneo di Antonio Miccoli

Cirene, capitale della Cirenaica, in Africa settentrionale, al tempo di Gesù aveva una numerosa popolazione giudaica. Originario di questa regione ed in seguito stabilitosi a Gerusalemme, in quel giorno di Parasceve Simone proveniva dalla campagna. Alle prime ore del mattino s’imbatté nel drappello di soldati romani che scortavano Gesù dal Pretorio al Golgota per la crocifissione. Era il venerdì 3 aprile dell’anno 33 dell’era cristiana.
L’uomo robusto della campagna dovette obbedire, sebbene riluttante, all’intimazione dei soldati che lo obbligarono a portare la croce del condannato. Ne riferiscono con esattezza i Sinottici (Matteo, Marco e Luca). Ma è l’evangelista Marco ad offrire un elemento prezioso sull’identità di quest’uomo: gli sono noti i nomi dei figli e li indica come Alessandro e Rufo. Di quest’ultimo parla anche San Paolo nella Lettera ai Romani, definendolo eletto del Signore.
La prestazione di aiuto del Cireneo non è dunque spontanea e libera, ma rivelatrice di una costrizione. Almeno inizialmente. Un’espressione di solidarietà coatta che sembra però tradire un barlume di umanità da riscontrare nel cedimento alla ferocia dei soldati. Sta di fatto che Simone di Cirene viene ad essere coinvolto in una vicenda impensabile e vasta come il mondo; anzi, allineata sulla stessa orbita di un dolore cosmico e al contempo di un amore incommensurabile che sembra sconfinare nel cuore stesso di Dio. Con quella croce condivisa sul cammino del Golgota, Simone sembra partecipare ad un disegno di redenzione.
Il Cireneo è l’emblema di una solidarietà esitante nell’impatto con l’autorità; poi la sua testimonianza si stempera e matura in una partecipazione al carico insostenibile della croce che assume simbolicamente i connotati di un coinvolgimento totale. Simone si ritrova, infatti, coinvolto nella storia con un fardello sulle spalle, con un peso intollerabile che curva e schiaccia l’uomo. È questo bisogno estremo e questa incombenza che rendono solidali e umani, che riscattano e redimono.
Il gesto di Simone di Cirene ci fa affacciare sul gorgo della storia convulsa dell’umanità, ci introduce nelle spire degli eventi attuali: flussi migratori indocili ad ogni normativa, masse crescenti di operai senza lavoro, individui indifesi e vittime di un profitto senza ritegno: la multitudo languentium che soggiace all’immane dolore del mondo. Un dolore che richiede le spalle possenti di mille cirenei.
E quando un cireneo offre il proprio aiuto su quell’ideale tratto di strada che va dal Pretorio al Golgota, è possibile ritrovarsi al cospetto della debolezza del Dio-Uomo, ad una vittoria e ad una risurrezione.


VI - L'incontro con la Veronica di Giovanna Bongiorno

Kim Pangjiali aveva lasciato la sua terra, la sua gente, fuggendo davanti ad una lunga scia di miseria e di sangue, verso l’occidente, verso la speranza e la libertà. Un incrollabile desiderio di pace e di dignità lo aveva sorretto nel calvario crudele del viaggio interminabile verso l’Europa, vincendo il prevedibile cedimento del fragile corpo provato dagli stenti e la disperazione che gli stringeva il cuore. Finalmente era arrivato. Ma dove era arrivato? Arenato sul guado ostile della metropoli, aveva disceso in breve tempo tutti i gradini del dolore e della solitudine, percorrendo i sentieri della paura, incalzato dalla violenza metropolitana, abbandonato dall’indifferenza crudele di chi ascolta esclusivamente l’urlo del proprio dolore, ignorato dall’ansia cieca e frenetica di chi è sospinto unicamente a competere.
Senza pace, dilaniato dal ricordo struggente della sua terra lontana e della sua gente, ebbe a pensare mille volte che sarebbe stato meglio morire in Pakistan, di fame o di coltello, piuttosto che vivere strisciando, estraneo ed ignorato, nell’anonimato senza volto e senza voce della metropoli indifferente e vorace.
Da molti mesi aveva un cartone per tetto, un marciapiedi per giaciglio e la paura per compagna. Le prostitute dell’Est, poco più che sventurate bambine, ed i loro frettolosi clienti erano l’unica umanità disperata, indecente e chiassosa, che abitava la sua strada e le sue notti.
Quello che poteva accadere accadde, e lui vide arrivare i suoi aguzzini come in un incubo irreale, senza fine. Il primo calcio lo colpì allo stomaco. Sentì esplodergli dentro tutto il suo sangue che in mille rivoli prese altre strade, disertandogli il cuore. Una forza disperata lo sospinse ad alzarsi tanto quanto bastò a trovarsi occhi negli occhi col volto ottuso e feroce del suo carnefice. Fu un istante e ricadde colpito con violenza al viso, schiacciato da una massa umana che a calci e pugni impedì una fuga ormai impossibile al suo corpo martoriato ed estraneo alla mente. La teppaglia urlante insolentì esultando, colpendolo ancora una volta prima d’allontanarsi come una mostruosa onda di morte che prosegue la sua corsa casuale ed insensata seminando strazio e dolore.
Nella strada fu improvvisamente silenzio. Kim Pangjiali vide le foreste del suo paese e i bambini dai grandi occhi di giaietto che libravano nel tramonto grandi aquiloni colorati, illuminati da una tenue fiammella che si perdeva in cielo.
Vide sua madre avvolta in un sahari colore della notte e lui, piccino, buttarsi tra le braccia, affondando il volto in quel buio dolce, rassicurante, colmo di tepore. Pensò d’essere morto. Poi, avvertì, appannato ed estraneo, il suono del suo respiro, un rantolo flebile e irregolare che giungeva da lontano, accompagnando il suo viaggio nell’alba dell’infanzia.
Qualcosa gli sfiorò il volto. Sentì una carezza lievissima risvegliarlo, con una fitta lancinante, in un unico grumo di intollerabile dolore. Quest’ala che sembrava sfiorarlo, passò e ripassò sul suo viso oltraggiato ed ogni volta fu un nuovo, orribile strazio che, suo malgrado, lo richiamava alla vita. Le palpebre si sollevarono pesanti e dolenti, imbrattate di sangue e lacrime e nella sua pupilla opaca uno sforzo doloroso intercettò, confusamente, un volto acerbo di donna.
China su di lui, con pietosa amorevolezza la veronica di Valona, quasi una bambina, asciugava le piaghe di Kim Pangjiali, l’uomo dei dolori, il reietto disprezzato e rifiutato dall’umanità, assuefatto dalla sofferenza, caricato dei nostri mali e dei nostri dolori. E come Cristo, Kim Pangjiali, nel sussulto ultimo dell’agonia, vide la sua vita vacillare e spegnersi come le fiammelle degli aquiloni, spirando, ferito a morte dalle nostre iniquità.


VII - La seconda caduta di Giovanna D'Amore Pucci

Dilaniato dalla malvagità degli empi, l’uomo cade. Cade nel peccato, nella sfiducia: I miei nemici sono vivi e forti. Mi accusano perché cerco il bene. Dio mio, perché mi hai abbandonato?.
E il grido di dolore raccoglie l’immagine delle cadute di Cristo durante la Via Crucis, l’immagine di Cristo in croce. L’uomo cade perché il male genera il male, l’odio genera l’odio e il desiderio di morte per il nemico. Chi si sente schernito e minacciato nella propria dignità di uomo si perde.
Si è buoni quando si è felici, dice Oscar Wilde. E con i sentimenti cattivi che il genere umano suscita infierendo sui più deboli, si disperde l’etica. Anche gli uomini più miti si inaridiscono davanti alle mutilazioni che procura l’ingiustizia.
E chi, disarmato, viene sopraffatto dalle calunnie e dalla violenza, sconfina, valica i margini dell’autocontrollo, cade. La cattiva mediazione della società, del resto, che pulsa di entusiasmo nello scorgere una preda indifesa conduce sempre di più la vittima allo smarrimento.
Il latente sadismo che è in tutti – afferma Theodor Adorno – fa sì che la fantasia di persecuzione si attacca: dovunque si manifesti ci sono spettatori irresistibilmente spinti ad imitarla… Un pazzo fa molti pazzi.
E allora? Come può sfuggire la vittima ad una cattiveria collettiva?
Come può la vittima esimersi dal maledire chi l’ha condannata a soffrire? Dio mio, perché mi hai abbandonato! è il grido di chi avverte una distruzione totale. Se odo la calunnia di molti, il terrore mi circonda. E non è facile rinascere dopo la perdita dell’identità per recuperarsi in maniera diversa. A meno che…, a meno che un barlume di fede non sopravviva alla distruzione, un barlume di luce non illumini l’uomo sconvolto, sino a fargli capire che arrendersi alla disperazione è una rinuncia alla vita, e che vale la pena lottare sino all’estremo delle forze per non cedere anzitempo alla morte.
La salvezza dei giusti – dice la Bibbia – è il Signore. Ma il termine "giusti", per la Bibbia, è sinonimo di uomini sapienti, illuminati, che nel bisogno riescono ad esprimere la loro forza.


VIII - Le donne di Gerusalemme di Chiara De Toni

Le donne si battevano il petto e singhiozzavano lungo la strada che porta al supplizio. Le piangenti recano la coraggiosa testimonianza che Gesù non è un malfattore.
Gesù parla alle donne come profeta, pieno di grandezza e maestà. Le sue parole sono rivestite con il linguaggio dei profeti di sventura: Piangete piuttosto su voi stesse e sui vostri figli!.
La sua parola profetica ammonisce ed incita alla conversione e alla penitenza. Il suo andare incontro alla croce porta a compimento i piani di Dio.
Le donne avvicinano Gesù e piangono perché ingiustamente condannato. Egli è l’innocente, il giusto, il santo. La folla ha agito sotto la spinta dell’emozione, istigata da capi mossi da malvagie intenzioni, volte a distruggere Gesù nel quale vedevano la rovina piuttosto che la salvezza.
Le lacrime versate a causa del peccato sono suppliche che Dio ascolta e accoglie. Sono lacrime necessarie che sgorgano dalla vita nuova di un cuore affranto ed umiliato.
Beati coloro che piangono perché saranno consolati, dice il Signore.
Nell’Antica Alleanza Dio disse per mezzo di Isaia: Consolate il mio popolo, consolatelo.
Una delle grandi miserie della condizione umana è non incontrare chi sappia consolare nella tribolazione. Le lacrime corrono senza essere asciugate, senza che nessuno se ne accorga, perché non c’è chi ascolti, chi si commuova, chi sappia dare sollievo al dolore.
Però Dio vuole essere la consolazione del suo popolo, con la bontà del pastore per le sue pecore, con l’affetto di un padre per i suoi figli, con l’amore di un fidanzato per la sua fidanzata, con la tenerezza di una madre verso il suo bambino.
Il Messia è consolazione per coloro che sono affranti dal dolore, è speranza per quelli che non hanno voce, è fiducia per coloro che sono oppressi dalle malattie e dal peccato.
Egli offre loro il ristoro: Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi.


IX - La terza caduta di Cosimo Scordato

Non sappiamo quante volte Gesù sia caduto a terra. Le narrazioni evangeliche sono molto discrete su questi particolari.La pietà cristiana, però, ha intuito che in questo cammino della croce, in qualche modo, viene rappresentata la piena condivisione di Gesù nei confronti della precaria condizione umana, fino in fondo, secondo il mistero insondabile di quella chenosi-abbassamento, che porta Dio fin nella oscurità della morte, per illuminarla dall’interno.
Nella scansione di questo abbassamento vanno intese le cadute, determinate non soltanto dalla condizione sfinita di Gesù (processato, flagellato e messo alla berlina…), ma ancor più dal peso insostenibile di tutte le contraddizioni della storia del peccato, che in Gesù Dio stesso in-crocia, facendosene carico.
Così Gesù, uomo dei dolori, a terra per la terza volta (cioè per l’ennesima volta) dà forma, ad un tempo, a tutti i dolori del mondo e alla passione incondizionata di Dio per l’uomo.
L’ha capito bene Domenico Spinosa questo dramma intriso di sangue e di ferite, di dolore e di lamento. La sequenza delle tre cadute scandisce l’incalzare della umiliante discesa fino alla terra.
Nella terza caduta Gesù raggiunge il punto supremo di prostrazione, aderendo quasi alla povere; il suo corpo (diventato appena uno schizzo), la croce sovrastante, la terra fanno ormai un tutt’uno.
Ma la croce è luminosa. La gloria di Dio risplende sub contraria specie, resa sopportabile solo da un amore infinito verso la creatura immeritevole.
La via di Gesù, allora, non è più strada senza ritorno.
Quella luce – che è diventata materia trasfigurata dalla croce – nel linguaggio di Spinosa evoca il farsi strada di Dio nell’oscurità della storia.
Che la croce finalmente salvi, portata da Dio stesso?
Spinosa sospende all’oscura luminosità del dolore di Gesù il dramma di Dio ed il dramma dell’uomo.


X - La spogliazione di Giovanni Lo Cascio

È sempre fastidioso sentirsi scrutati nella nostra intimità, frugati ed espropriati di quanto teniamo gelosamente nel profondo di noi stessi.
Ed è ancora una delle esperienze più mortificanti, se non deprimenti, il dover mostrare la nudità fisica, anche se ad un medico, o quella morale al confessore o allo psicoterapeuta.
A Gesù non è stata risparmiata nemmeno quest’ulteriore mortificazione. Spogliato dei suoi diritti, dell’onore, degli affetti e in ultimo delle stesse vesti; nudo davanti agli astanti e davanti alla storia.
Ecco l’uomo, il prototipo di ognuno che viene spogliato dalla perversità, dalla violenza, dall’usura, dalle ideologia: Io, ormai sono un verme, e non un uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo.
Si era già spogliato di sé entrando nel tempo, e velando il suo divino splendore sotto la fragilità di una tenda di carne, un corpo umano, secondo la metafora cara alla tradizione giudaica, e così spesso usata nel Nuovo Testamento.
Ora, tolte le vesti, appare nella sua debole e nuda fragilità la Tenda del suo corpo, prima che, divelta ed arrotolata, sia chiusa per sempre nella tomba, coi sigilli del Sinedrio: La mia tenda è stata divelta e gettata lontano da me, come una tenda di pastori. Come un tessitore hai arrotolato la mia vita, mi recidi dall’ordito. In un giorno ed una notte mi conduci alla fine. Ecco l’uomo, questa tragica esibizione, tuttavia, mentre ce lo mostra nudo sulla croce, lo fa segno di una nuova libertà, priva di orpelli e di ritualismi, nello splendore della verità nuda poiché tutto il resto viene dal maligno.
Ciò disturba i benpensanti, gli acquiescenti, gli accomodanti, pavidi di fronte alla follia della croce di cui solo uomini come Francesco d’Assisi hanno la vivacità e la libertà di coglierne la carica profetica per ripeterlo e riproporlo audacemente anche agli altri.
Anche Dalì, nel suo Christus ipercubus, ha espresso il contrasto stridente tra il Cristo, magnifico nella sua tersa nudità, sospeso tra cielo e terra, proteso verso l’alto, e la Maddalena che sotto un carico di vesti barocche, salda sull’impiantito, è ancora incapace di librarsi verso l’amore crocifisso.
Se non cadono tutte le nostre sovrastrutture, ogni malizia, ogni frode, le finzioni, le invidie e tutte le maldicenze, la Tenda rimarrà sconvolta ed inutile e non potrà, una volta arrotolata, con li occhi – levarsi più alto verso l’ultima salute.
C’è quindi una nudità dello spirito, che sarà rivestita dal Cristo, ma esiste anche una nudità materiale, forse talora cercata, coccolata, ostentata, e raramente accompagnabile alla prima… Spesso, quanto più si è incapaci di reggere un ruolo, una parte, un compito, tanto più si è tentati di cercare la scorciatoia dell’esibizione estrema, che porti carriera, soldi, potere.
Riflettendo su questo, concludeva Paolo: Spogliatevi dell’uomo vecchio con la condotta di prima Rivestitevi del Signore nostro Gesù.


XI - La crocifissione di Salvatore Di Fazio

In quale baratro di delirio, in quale vortice di paranoia può sprofondare l’ingiusta giustizia degli uomini! È questo il destino dei giusti? È questo, senza dubbio. Se Dio non ha segnato confini all’intelligenza umana, perché avrebbe dovuto porne uno alla stupidità, al furore sanguinario, all’ebbrezza di assassinio, all’impulso distruttivo?
Anche per te, Signore, c’è stato il giorno dell’ira, il giorno dell’inquisizione. Un giorno tremendo, implacabile, fatale. Ti hanno giudicato con la severità e la superficialità che è propria dei tribunali degli uomini. Hai subito la farsa di un processo, la beffa di una condanna; hai ascoltato sentenza di fuoco. Fiamme e sudore hanno coperto il tuo volto.
Anche tu, umano fratello, sei salito nudo su quell’ordigno infame, allo stesso modo in cui, nudi nel corpo e nella dignità, sarebbero saliti sui pali di tortura tanti tuoi fratelli incolpevoli: martire fra i martiri del Colosseo, dei gulag, dei campi di sterminio. Il cielo e la terra si sono squarciati, si sono sconquassati per non vedere, per non sentire. Gravido di malizia il mondo ha urlato, ieri come oggi, parole di empietà: A morte il Nazareno! A morte l’ebreo! A morte il negro!
Come è sempre uguale la storia del mondo!
La tua è memoria di supplizio, di sangue, di sommaria, oscura, implacabile rozzezza, consumata davanti alle impietrite montagne di quella landa desolata. Tu che conoscevi la ragione di ogni cosa, di quelle che appaiono e di quelle più segrete, dei misteri del cielo e di quelli della terra. Tu sei il paradigma di ogni contraddizione.
Chi, credendosi saggio, senza temere la giustizia, ha fatto giustizia della tua onestà? Chi ha nutrito odio o invidia della tua bontà? Chi, con smisurata licenza, con orrendo miscuglio di voluttà e di crudeltà, ha scatenato i mostri più feroci e selvaggi dell’inconscio umano?
L’uomo, pur conoscendo e sentendo gli spaventi e gli orrori dell’esistenza, ha disvelato così l’enorme diffidenza verso la tua parola sacra. Come quell’avvoltoio del grande amico degli uomini che fu Prometeo, la presunzione di sé, l’intemperanza, demoni caparbiamente ostili di questo mondo irragionevole, hanno concepito pensieri di disgusto. Tu non hai peccato, perché l’uomo nobile non pecca. Ad onta della tua saggezza sei stato vituperato con eccesso di miseria, abbandonato a uno sconfinato dolore.
Eppure, sei rimasto nell’attitudine del paziente, la cui serenità ultraterrena piove da una sfera celeste e ci dice che il giusto, l’innocente, nella contemplazione raggiunge la sua attività suprema, la quale continua ad agire molto al di là della sua stessa vita. La tua energica, profonda tendenza alla giustizia è stata ripagata con il massimo dell’ingiustizia. Che penoso e irriducibile contrasto fra verità e menzogna, fra la luce e le tenebre!
Tu sei l’Atlante di tutti i martiri, di tutti i perseguitati, di tutti i saggi. Sull’ampio tuo dorso hai portato i reietti e gli esclusi dell’universo. Contro i mortali che calpestano santità di diritti, tu insegni che i verdetti delle aule giudiziarie sono la penombra di un sogno.


XII - La morte di Melo Freni

C’è una poesia di Borges che ha per tema la nostalgia che Gesù sente, dopo la sua morte, della terra; più precisamente del profumo del legno nella falegnameria del padre.
È un’idea, questa di Borges, che in pochi versi sintetizza tutta una serie di principi filosofici che sul tema della morte, ineluttabile ma non definitiva, si sono andati sviluppando sulla lezione, rivoluzionaria, che è stata iniziata da Cristo con la sua morte in croce.
Mosé aveva innalzato nel deserto un serpente di bronzo, guardando il quale gli ebrei morsicati dai serpenti venivano guariti.
La croce, che ha cancellato le idolatrie, ha pure abbattuto lo steccato di ogni altra paura che, fino al momento della morte di Gesù, aveva attanagliato il respiro degli uomini.
È in tal senso che va letta la esaltazione della croce, diventata simbolo innanzi tutto della gente che soffre.
I pellegrini di Gerusalemme ripercorrevano le strade attraversate da Gesù per salire al Calvario, noi ripercorriamo le nostre strade nel ricordo e nel segno di quei giorni, sapendo che quel sacrificio ancora ci appartiene, per quanto ha trasformato e riplasmato della nostra storia.
Non è solo materia di credenti e religiosi professi; l’evento "crocifissione" ha investito ogni forma di cultura, per il nuovo rilievo che ha dato al tema della morte.
Secondo Savinio il tema della morte ha una importanza fondamentale persino per gli studi sociali; secondo Sciascia, rinunciando al pensiero della morte, l’umanità rischierebbe di inaridire le fonti dello stesso pensiero. Le citazioni potrebbero essere tante!
Socrate (che nel suo pensiero influenzò il Cristianesimo), bevendo saggiamente la sua cicuta, affrontò serenamente il buio della morte; Cristo, che invece la morte non la scelse ma l’affrontò, per volontà del Padre, fino al limite della disperazione (Perché mi hai abbandonato?), paradossalmente ha aperto alla morte la via della luce: da cui, in Cristo non si muore.
Una riflessione breve, ma mi auguro intensa, per una sosta alla XII stazione della Via Crucis.


XIII - La deposizione di Mariano Apa

Su la costretta delimitazione dell’incrocio cartesiano ecco che una diagonale spezza e ruota le verticalità e orizzontalità del fenomenico.
Da Duccio a Pontormo il luogo della Deposizione è stato in composizione l’immettere una arcuata diagonale che ponesse la premessa all’abbraccio con la Madre – nella tipologia della "Pietà" – ovvero nel ritorno alla Madre Terra.
Si scende dalla Croce e si viene deposti nel ventre roccioso della terra. Deposizione e sepoltura: abbraccio definitivo per ritemprare le salite, i corsi svolti.
Siamo discesi perché vi è un "prima" in cui siamo saliti: per nostra e altrui indicazione.
Saliamo al Monte, tra Sinai e Carmelo, tra Mosé e Giovanni della Croce…
Il Cristo "sale" e discende. È la condizione fenomenologica del salire e del discendere.
Ma quando è disceso dalla Croce, il Cristo discende nelle oscurità degli abissi: discende nel luogo dove deve disarcionare la porta del maligno e liberare i Patriarchi.
Cosi la discesa dalla Croce è la discesa della possibilità della liberazione.
Vincendo la morte si dispiega la potenza liberante del corpo risorto.
Alla flaccida iconografia del corpo deposto ecco si sovrappone il plastico e decisivo volto del liberatore.
Se la Deposizione è momento di silenzioso riflettere e silenzioso partecipare al luogo della morte, la discesa agli inferi è il canto del Risorto che rimanda come in un eco, al Magnificat, perché l’omega del Risorto è l’alfa dell’Incarnazione.
Come una pietra abbandonata, il corpo che nessuno voleva è diventata "pietra viva", "porta", "soglia". Nuova Gerusalemme.
La morte del giusto ha il giusto riposo.
Salire e scendere; discendere.
Deposti, depositati. Rannicchiati, raggomitolati nel freddo imploriamo un abbraccio, un grandioso abbraccio di accoglienza.
Il Cristo è padre ed è madre.


XVI - Il sepolcro di Giuseppe Savagnone

Può ancora dire qualcosa agli uomini del nostro tempo questo racconto? Forse sì, se lo colleghiamo a quanto è maturato nella coscienza collettiva in quest’ultimo secolo.
Al fondo di essa sta la terribile affermazione di Nietzsche: Dio è morto! (…) E noi lo abbiamo ucciso!. Simmetrico a questo grido, è l’altro, dello stesso filosofo: Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra. Il legame tra le due espressioni è evidente: l’uccisione di Dio era il prezzo da pagare per restare fedeli alla terra. Bisognava liberarsi di ogni forma di trascendenza, di ogni al di là, per potersi riconciliare con l’al di qua.
Ebbene, la vicenda della sepoltura di Gesù ci rimanda alla morte di Dio. Noi lo abbiamo ucciso. Ma essa suggerisce uno sviluppo diverso da quello immaginato da Nietzsche. Perché il Dio di cui qui si parla, con la sua morte, penetra egli stesso nel cuore della terra, quasi a completare l’alleanza stretta con essa al momento della sua nascita a Betlem.
Il sepolcro è l’estrema conferma del mistero dell’Incarnazione: non solo Colui che l’universo non può contenere si è voluto fare uomo, annientandosi e assumendo la forma di servo, ma ha spinto questa corsa verso l’assoluto impoverimento – per raggiungere e abbracciare la sua creatura – fino a condividerne l’esperienza più angosciosa, quella che più l’avvicina al nulla, l’esperienza della morte. Al punto di scendere anche Lui nel grembo oscuro della terra, là dove sembra venir meno ogni speranza.
Ma, poiché Egli è il Signore della vita, questa non è stata la vittoria della morte, bensì la sua definitiva sconfitta. Come il seme della parabola, a cui Paolo l’ha paragonato, il corpo di Gesù non è penetrato nella dura roccia per restarne prigioniero, ma per benedirla e fecondarla, facendo scaturire proprio da essa l’uomo nuovo, il Risorto.
Nella prospettiva cristiana non c’è al di là che non coinvolga fin nelle sue radici più profonde l’al di qua. Non c’è trascendenza che non implichi questo passaggio attraverso tutto lo spessore della "terrestrità". Da questa, diceva il salmo, deve germogliare la verità.
La fedeltà a Dio non contraddice quella alle creature, perché Egli per primo ha voluto essere fedele a loro fino all’ultimo, tornando alla terra per salvarle. Anzi, non c’è fedeltà alla terra se non in questa fedeltà di Dio e – paradossale capovolgimento della tesi di Nietzsche – in questa fedeltà al Dio che dà se stesso per lei e le si abbandona senza riserve.
Il sepolcro è stato non soltanto il muto testimone, ma il luogo di questo incontro fra un Dio che muore per amore e la sua creatura che, grazie a Lui e in Lui risorge. In quel vano scavato nella roccia essi si incontrarono per una nuova alleanza, ed esso fu come la stanza nuziale dove il Creatore si unì, in fedeltà e giustizia, alla sposa che era perduta e che ora venne ritrovata e amata per sempre.

Per  informazioni
Ufficio Diocesano Beni Culturali
(0941-240866)
giorni feriali dalle 9.00 alle 12.30, tranne il sabato.

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