SCINTILLE DI LUCE
Il Giubileo a Patti

Testi

5. Creazione, redenzione, santificazione

di Giovanni Orlando


La teologia recente, attraverso un rinnovato contatto con la Parola di Dio e provocata dai segni dei tempi, vede nella creazione un mistero di salvezza, un momento della storia dei gesti di Dio, che culmina nel fatto dell’incarnazione e di lì si proietta verso la fine dei tempi. Creazione e redenzione, peccato e grazia, amore fedele di Dio e faticoso impegno dell’uomo costituiscono il contenuto di questa storia. In essa proprio l’uomo, portatore peculiare dell’immagine di Dio e reso suo partner, è investito della formidabile responsabilità di farsi coscienza del mondo, per la ricapitolazione in Cristo di tutte le cose. Così, l’annunzio cristiano di Gesù Salvatore del mondo appare come il centro gravitazionale dell’intero creato. E anche partire dal Vaticano II la riflessione teologica, attingendo alla rivelazione biblica, attraverso la Costituzione Gaudium et Spes si pone nella prospettiva della dimensione dialogica della creazione e indica il contesto entro il quale oggi va inteso il discorso cristiano della creazione. La creazione non appare semplicemente come la spiegazione della origine delle cose, ma come il compiersi di un’umanizzazione, che ha in Cristo il suo modello, il suo principio, il suo fine ultimo. Creato per l’uomo, fine immediato della creazione, l’universo non è una realtà già compiuta, ma una potenzialità che ancora cerca la sua realizzazione. All’uomo si svela insieme come dono e come luogo di conquiste, come fatica e speranza. Così il credente sa che questo mondo, nonostante tutto, cammina verso la pienezza della comunione in Cristo e questo tempo è tutto orientato alla pienezza dei tempi e al non ancora di Dio.

 1. L’uomo nel creato
Attraverso questa riflessione intendiamo rivisitare alcune affermazioni del racconto biblico della creazione del mondo per trarre, senza alcuna pretesa di esaustività, alcune prospettive teologiche. Il racconto della creazione del mondo e dell’uomo in Genesi 1,1-2,4a appartiene alla tradizione sacerdotale (P. Priestercodex, sec. VI-V a.C.), quello contenuto in Genesi 2,4b-24 alla più antica tradizione jahvista (j, sec. X-XI). Fermandoci a riflettere innanzitutto sulla descrizione della fonte sacerdotale, ciò che costituisce un elemento di assoluta singolarità è lo schema della settimana (Gen 1) tendente al riposo del settimo giorno. Questo schema della settimana è di grande importanza teologica: si vuole sanzionare il periodo dei sette giorni come ritmo di lavoro e di vita per l’uomo. "Il fine di tutte le opere e di ogni attività ad essa connessa è il riposo di Dio nella creazione e del creato in Dio nel giorno di Sabato. I giorni non sono fatti per susseguirsi senza fine: c’è per essi un termine, che coincide con il riposo del Protagonista divino dell’inizio, e che, rispetto all’inizio, presenta la novità meravigliosa della creatura associata al Creatore nella festa dell’ultimo giorno".

1.1 Bontà della creazione
Il testo, poi, ci conduce quasi per mano nel cuore dell’evento genesiaco che ognuna delle opere di Dio è vista come buona da Lui. "E Dio vide era cosa buona". Il racconto sacerdotale sottolinea con questa espressione e in modo poetico che ogni cosa è adatta al suo fine, conforme al suo senso e perciò orientata ad incontrare il Creatore nella festa del settimo giorno. Inoltre, quasi con stupore viene sottolineato che la parola creatrice di Dio trasforma il caos in uno spazio ordinato, consentendo il sorgere, il brulicare della vita vegetale, animale e, infine, umana. La bontà e la bellezza delle creature sta nel loro essere aperte verso Dio, tutte relative a Lui, fatte per incontrarlo ed entrare nel suo riposo. Dio regna sovrano in tutte le cose, mentre ciascuna di esse misura in rapporto a Lui la consistenza e la fragilità del proprio essere. Anche l’uomo rientra in questa assoluta dipendenza e creaturalità situato in una stretta rete di solidarietà con tutte le altre creature. L’uomo però è destinato a divenire partner dell’alleanza: "Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra. Dio creò l’uomo a sua immagine: a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò" (Gen 1,26-27). L’essere immagine di Dio vuol dire che uomo e donna non soltanto esistono, ma sono capaci di una relazione con Dio. Quindi "l’immagine e la somiglianza divina vanno lette nell’orizzonte dell’alleanza: esse esprimono la capacità dell’uomo a entrare nel patto in maniera consapevole e libera, la sua attitudine a relazionarsi in un rapporto di accoglienza e di gratuità". Se da una parte, dunque, l’uomo è legato al suo mondo (è tratto dalla terra), dall’altra parte è aperto alla relazione con Dio (Immagine di Dio). Il "mondo" è finalizzato alla piena realizzazione dell’uomo, ma sua volta l’uomo è finalizzato all’incontro con Dio, trascinando con sé il mondo. Dal mondo l’uomo trae non solo i prodotti che consuma ma anche i significati, nel mondo egli investe i significati che Dio gli dona: è questo il senso del lavoro, ma anche della contemplazione poetica. È soprattutto nel racconto Jahivista che la bontà della creazione viene evidenziata dallo splendore del giardino, pieno di ogni sorta di alberi da frutto e dalla ricchezza di acqua in esso presente, che indica fecondità (Gen 2,8-14). Dire mondo come creazione non significa allora, in primo luogo, dichiararne la dipendenza da una realtà totalmente altra, ma piuttosto indicarne il radicamento nella fonte della misericordia che gli conferisce una bellezza e un valore intrinseco. Il creato è l’oggetto del compiacimento affettuoso di Dio, lo spazio nel quale la sua sapienza trova diletto e in cui viene a prendere dimora la sua gloria. In questo ampio orizzonte non si deve contrapporre la storicità della rivelazione di Dio ad una pretesa staticità della natura. Molti testi sapienziali considerano fonte di conoscenza e di timor di Dio la contemplazione delle meraviglie del creato. Questi contenuti teologici sono presenti nei Salmi e motivano la risposta di lode di fronte alle meraviglie operate dal Signore nel creato e nella storia. "Lo splendore della creazione rinvia alla grandezza del Creatore, in una meditazione in cui il "disincanto del mondo" si salda allo stupore e all’adorazione nei confronti dell’unico Signore"" (cfr. Sal 104). Così infatti viene percepita la bellezza del creato (Sal 104): "Signore, mio Dio, quanto sei grande! Rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto… Fai scaturire le sorgenti nelle valli e scorrono tra i monti…/ Quanto sono grandi, Signore, le tue opere! Tutto hai fatto con saggezza, la terra è piena delle tue creature…". Questa gioia che si esprime nella lode per il creato, è nell’Antico Testamento l’effetto evidente del sapere che questo mondo ha avuto origine dalla volontà e dall’azione buona del Creatore. Come si può constatare, l’attenzione resta fissa al creato, alla bellezza dei cieli e della terra, al mistero dell’uomo signore del mondo. La lode scaturisce da questo sentimento e prorompe nel riconoscimento che tutto è stato fatto da Dio. La creazione, quindi, manifesta la grandezza del Creatore e la sua bontà verso le creature, particolarmente l’uomo. Il salmista sembra convocare tutta la creazione per celebrare la gloria del Creatore e a rendergli testimonianza col fatto stesso di esserci (cfr. Sal 148 e inizio del Sal 19). Proprio la lode, la contemplazione, la meditazione danno all’uomo la giusta comprensione del mondo come creazione di Dio.

1.2 "Poi il Signore Dio disse: Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile" (Gen 2,10).
Nella meditazione genesiaca, nonostante la speciale provvidenza di Dio che si manifesta nell’amoroso chinarsi verso l’uomo, la vita di Adamo è caratterizzata dalla solitudine, che per lui non è bene. Questo secondo racconto dimostra che la creazione nella quale tutto è "cosa molto buona" (Gen 1,31) non è ancora terminata. Così nel sonno profondo dell’uomo, la donna viene creata da Dio traendola dalla costola dell’uomo (a partire da lui ) come sua compagna (verso di lui) al cospetto della quale egli esclama: "Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà ishà (donna) perché da ihs (uomo) fu tolta" (Gen 2,23). Come il Creatore aveva prima condotto all’uomo gli animali, così conduce a lui la donna, e l’uomo l’accoglie con un esultante saluto di benedizione: questo è veramente l’aiuto che egli è corrispondente! Si tratta di un aiuto inteso nel senso più ampio della parola, che riguarda tutti i campi della vita. Per questo solo di fronte ad Eva, Adamo può erompere nel grido di chi incontra finalmente una propria pari, qualcuno capace di stargli dinanzi (Gen 2,23). E con questa esclamazione gioiosa, con cui l’uomo saluta la compagna, il racconto della creazione dell’uomo raggiunge il suo vertice. Ora soltanto l’essere creato da Dio è realmente uomo: l’uomo nella comunità. Non è senza significato teologico ciò che il testo aggiunge subito dopo: "Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola" (Gen 2,23-24). "Se prima il rapporto dei sessi veniva posto accanto all’immagine di Dio, il rapporto io-tu, specialmente di uomo e donna (ma proprio non di provenienza sessuale) le appartiene pure in modo assolutamente intrinseco, perché solo così il soggetto che è portatore dell’immagine, si compie. Ma mentre l’essere dell’uomo per l’altro (comportante una differenza di livello ma anche una sostanziale uguaglianza) dei due costituisce il soggetto, il tema della relazione di partner tra Dio e l’uomo, della possibilità per l’uomo di essere colui a cui si rivolge la parola e del parlare di Dio in lui". È da sottolineare infine, nel contesto della creazione, l’importanza del tema biblico della benedizione: "Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra…"" (Gen 1,28). A queste parole di benedizione segue immediatamente la seconda determinazione: "… soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra" (Gen 1,28). Il compito dell’uomo, espresso con i verbi "soggiogare" e "dominare", non si identifica con l’essere immagine di Dio, ma ne è la conseguenza. Infatti il v. 28 riporta le parole della benedizione divina sull’uomo e non è un comando o un imperativo etico. All’uomo, creato a sua immagine, Dio conferisce una energia vitale (questo è il senso di "benedizione") con cui l’uomo può esercitare il suo compito nel mondo. È questa energia della benedizione che si esplicita nella serie delle generazioni che è presentata poi nella genealogia del cap. 5 del testo genesiaco. L’azione suscitata dall’energia della benedizione non mira soltanto a conservare perché la benedizione è una forza che spinge ad avanzare, a progredire, ed è gravida di futuro. Una particolare attenzione meritano i verbi qui usati. Quello che di solito è reso con "soggiogare" è il verbo ebraico "Kàbas", con cui si indica "la presa di possesso di un territorio". Con la benedizione divina, l’umanità riceve la capacità di generare e di moltiplicarsi fino a riempire la terra: i singoli popoli, dunque, prenderanno possesso ciascuno del proprio territorio. L’altro verbo riguarda il rapporto dell’uomo con il mondo animale. In ebraico, è "ràdah", reso con "dominare", ma che significa piuttosto "pascolare, condurre, guidare, reggere". Il verbo suggerisce l’immagine dell’uomo come "pastore" di tutti gli animali. All’uomo, quindi, è affidato il territorio e gli animali. Ma tale affidamento avviene mediante una benedizione divina. Ciò vuol dire che il rapporto dell’uomo con il territorio e gli animali dovrà attingere da Dio i criteri del suo realizzarsi concretamente. Il Creatore rimane sempre signore di questa forza. Nel tema biblico della benedizione, dunque, è presente la coscienza di una continua azione divina che promuove "la crescita, il successo, il fatto del moltiplicarsi, la provvidenza", dimensioni che interessano l’uomo con gli altri viventi. Si potrebbe dire, anzi affermare col Salmo 55, che la terra stessa, visitata e benedetta da Dio, grida di esultanza nella sua fecondità. Questo dato presente nel Primo Testamento è superato nella rivelazione neotestamentaria: anche "sulla croce è rappresentato il dio benedicente, che benedice, rassicura e protegge dai pericoli il terreno, il bestiame, la casa e la famiglia". Una riflessione attenta della rivelazione biblica scopre qui un elemento di continuità, pur nella differenza. Tra la creazione e la redenzione, nella mano benedicente di un Dio che promuove la vita, anche al di là del peccato e del fallimento.

2. L’uomo redento in Cristo. La Redenzione operata da Cristo morto e risorto.
La storia di passione dell’uomo di tutti tempi, al cui affanno partecipa l’intera creazione, presenta delle istanze di domande di salvezza. Tra le tante ce n’è una intima o fondamentale che si sprigiona dalla "coscienza di peccato". È questa che conduce al mistero trascendente di Dio e trova nel mistero di Cristo crocifisso e risorto la vera e definitiva risposta. Egli ricapitola in sé l’intera realtà umana, essendo diventato da invisibile visibile, da impassibile passibile, da Dio immortale uomo mortale. Nella sua passione e morte si completa così Io scandalo dell’incarnazione: "Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani" (1Cor 1,23). Nel passato come ancora oggi la scandalosa insipienza della croce costituisce la dura roccia che sostiene la fede cristiana. È la croce la paradossale e problematica identità cristiana nei confronti delle altre religioni. Colui che aveva proclamato il Regno di Dio, sembrò essere stato abbandonato dal Dio del Regno che egli annunciava; colui che aveva aiutato gli altri a guarire e a liberarsi dalle potenze demoniache, morì senza essere stato aiutato e difeso da nessuno; colui che aveva sempre operato come benefattore del suo prossimo, fu condannato a morire come un malfattore su una croce in mezzo a ladroni; colui che aveva fatto della sua vita un evento unicamente religioso, spirò fuori della città santa e dal suo tempio, fuori da ogni contesto religioso, crocifisso e deriso nel profano "luogo del cranio" (cfr. Gv 19,17). La croce è l’ineliminabile autocritica interna del cristianesimo! È il suo segno di contraddizione. La croce giustifica l’audacia di pronunciare la parola scandalosa: Dio soffre!… È proprio nel mistero della sofferenza di Dio, infatti, che più emerge l’indeducibile identità e rilevanza dell’annuncio cristiano. Del resto la resurrezione, che rappresenta il traguardo ultimo dell’incarnazione, non sarà che la resurrezione del Crocefisso.

2.1 "Cristo morì per i nostri peccati secondo le scritture" (1Cor 15.3)
Concordando pienamente con la coscienza espressa da Gesù, il kerigma apostolico annunciò subito: "Cristo morì per i nostri peccati secondo le scritture" (1Cor 15,3). Fu questo, infatti, il contenuto del vangelo ricevuto e trasmesso fedelmente da Paolo (1Cor 15,1-5). Egli affermava che il messia era morto per gli altri uomini peccatori, la sua era dunque una morte vicaria, una morte in luogo e a favore degli uomini tutti peccatori e perciò lontani da Dio e incapaci di avere accesso a lui. La vera motivazione della morte di Gesù è quella della sua stessa incarnazione: la carità di Dio che si manifesta nella storia con la misericordia e il perdono. È il Natale ad essere orientato intrinsecamente alla Pasqua come ci insegna tutta la tradizione patristica consegnataci nel simbolo niceno e in quello niceno-costantinopolitano: "Per noi e per la nostra salvezza è disceso dal cielo, si è incarnato dallo Spirito Santo e da Maria Vergine e si è fatto uomo. È stato crocifisso per noi" (DS 150).
"Secondo le scritture". Quest’affermazione ci suggerisce due sottolineature. Anzitutto la morte di Gesù rientra nel piano di salvezza che Dio dispone per l’uomo. Già annunciato nell’Antico Testamento, attraverso il sacrificio di espiazione, la sofferenza dell’innocente e soprattutto la straordinaria figura del Servo di Jahvé. In secondo luogo Gesù stesso fu consapevole di essere l’uomo dei dolori di cui parla il profeta Isaia (cfr. Is 53,3) e di vivere sotto il segno grave e doloroso della croce. Questa consapevolezza lo spinge verso Gerusalemme, affrontando con grande libertà il viaggio che si sarebbe concluso con la sua passione e morte: "Ecco noi saliamo a Gerusalemme e il figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà" (cfr. Mc 10,33-34; Mc 8,31; Mt 20,17-19; Lc 18,31-34). Per amore e con piena libertà il Nazareno è andato incontro alla morte di croce. Egli si è lasciato consegnare, di mano in mano. Non si tratta di un cieco destino ma di un Padre che consegna il figlio per amore (cfr. Rm 4,25; 8,32; Gv 3,16) e del figlio che ubbidisce: "bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato" (Gv 14,31). Quindi la vera motivazione del sacrificio cruento della croce è l’amore del Padre e del Figlio per la salvezza dell’umanità: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16)

2.2 La croce testimonianza rivelatrice di amore
La croce di Gesù non è uno strumento di castigo divino ma assolve la testimonianza rivelatrice di Dio come Amore. Non è l’ira punitiva di Dio che si manifesta nella desolata morte in croce di Gesù, ma la sua carità senza limiti che perdona e riconcilia a sé tutto il mondo. La parola della "croce" indica che la "Croce di Cristo" da supplizio infamante diventa evento salvifico, con un proprio originale annunzio di amore. La croce così diventa teofania dell’amore di Cristo, che ha liberamente accettato la sua passione, prima di patirla. Non si tratta quindi di un evento umano semplicemente tragico, ma di una precisa iniziativa salvifica del figlio, che incarnandosi, "umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2,8). La morte di Gesù è stata considerata da Giovanni come "esaltazione" del Figlio, che mediante il sacrificio glorifica il Padre (cfr. Gv 3,14-15; 8,28; 12,32). Si deve notare che i due grandi momenti della passione, l’agonia e la morte in croce, rappresentano due significative situazioni di intimità filiale col Padre. Sono questi due poli estremi dell’esistente cosciente e testimoniale di Gesù che "relazionandosi a vicenda, sottolineano l’intimità di dedizione e di carità del Figlio nei confronti del Padre, soprattutto nei momenti decisivi del suo evento salvifico". All’amore del Padre che si manifesta nell’invio del Figlio e nel suo donarlo per noi (1Gv 4,10), risponde l’amore fedele del Figlio che compie il disegno del Padre e torna a lui (Gv 17,13) coinvolgendo in questo amore coloro che il Padre gli ha dato. In questa prospettiva la redenzione sacrificale appare come ora di gloria in cui si realizza pienamente la morte e la resurrezione, il passaggio di Dio tra noi, in Cristo. Il sacrificio pasquale sancisce il punto culminante di tutta una economia di salvezza: esso esprime, al vertice, tutto il senso della vita terrena di Gesù, come passaggio al Padre e tutto il senso della Chiesa che nasce e vive di questo mistero sacrificale di passaggio. In esso il peccato dell’uomo è vinto dalla potenza conquistatrice e liberante dell’amore perché "l’agonia della croce libera gli uomini dalle potenze che li rendono schiavi: nella forza dell’amore trinitario che l’attraversa, la croce è scandalo, spezzamento di ogni legge di paura e di ogni potere di peccato" (cfr. Gal 5,11). In tutto questo risplende già la luce della Pasqua perché non è possibile pensare da cristiani alla croce e tentare di penetrarne il mistero, senza contemporaneamente guardare alla resurrezione. Ora, nella croce e nella resurrezione, Dio opera in Cristo per distruggere la resistenza del male perché l’uomo nella riconciliazione e nella liberazione dal peccato sia salvato e costituito in Cristo, partner perfetto del dialogo di amicizia con Lui. La croce e la resurrezione costituiscono quel processo di redenzione nel quale la Chiesa e i credenti sono coinvolti, nell’amore sofferente, che caratterizza questo passaggio liberatore attraverso una dinamica di purificazione da tutte le tracce antiche della colpa, da quelle deviazioni e difficoltà derivanti dalla rottura della comunione con Dio. Il mistero pasquale di Cristo diviene il nuovo esodo verso la pienezza di quell’incontro di amore con il Padre che nella croce risplende nella obbedienza filiale e nella comunione gloriosa della resurrezione. In Gesù crocifisso-risorto si mostra un Dio che ha tempo per l’uomo e che con la potenza del suo Spirito opera nel cuore dell’uomo (Rm 5,5) vincendo la resistenza della carne e convertendolo verso la risposta di amore più perfetta e fedele, conforme alla sua vocazione filiale. Il futuro dell’uomo redento è il suo futuro, perché il tempo dell’uomo è ormai il tempo del suo Spirito.

3. Lo Spirito Santo dono e principio di santità nella Chiesa
Camminare secondo lo Spirito è la via nuova che il Nuovo Testamento traccia per il cristiano. Infatti il cammino del cristiano viene configurato come sequela di Cristo nella via dello spirito: "Se viviamo dello Spirito, camminiamo secondo lo Spirito" (Gal 5,25). Non si tratta di uno sforzo umano di perfezionamento, ma di un dono dello stesso Spirito che santifica il popolo di Dio con i Sacramenti, i ministeri, i carismi (cfr. Gv 12,15; EV 1/316 n).  "La Chiesa (dunque) è agli occhi della fede indefettibilmente santa. Infatti Cristo, figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è proclamato "il solo Santo", amò la Chiesa come sua sposa e diede se stesso per essa, al fine di santificarla (cfr. Ef 5,25-26), e la congiunse a sé come suo corpo e l’ha riempita col dono dello Spirito Santo per la gloria di Dio. Perciò tutti, nella Chiesa… sono chiamati alla santità... Orbene, questa santità della Chiesa costantemente si manifesta e si deve manifestare nei frutti della grazia che lo Spirito produce nei fedeli; si esprime in varie forme presso i singoli, i quali nel loro grado di vita tendono alla perfezione della carità ed edificano gli altri" (LG 39). Camminare secondo lo Spirito è dono prima di essere impegno; è vivere e seguire una determinata condotta non per diventare santi, ma perché siamo santi. In pratica, vuol dire vivere un’esistenza teologale nella carità, nella speranza, nella fede. Il Concilio Vaticano II ad ogni fedele, come all’intero popolo di Dio, addita l’esempio di Maria e presenta la santità della Chiesa che "ad imitazione della Madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo, conserva verginalmente integra la fede, solida la speranza, sincera la carità" (LG 64). 

3.1 La Chiesa nasce da Cristo Risorto e dallo Spirito
La Chiesa, "popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (LG 4), è nata e vive grazie a due "missioni", quella di Cristo e quella dello Spirito Santo. È particolarmente espressiva l’immagine delle due mani di Dio utilizzata da Sant’Ireneo per esprimere la nascita della Chiesa dalle due missioni, quella del Verbo e quella del Soffio: "Dio sarà glorificato nell’opera da Lui modellata quando l’avrà resa conforme e simile al Figlio suo. Poiché con le mani del Padre, cioè con il Figlio e lo Spirito, l’uomo diventa immagine e somiglianza di Dio". Il Padre manda il Figlio e poi, quando questi, compiuta la sua missione con la morte in croce, con la resurrezione, nell’incontro pasquale con gli Undici viene personalmente a comunicare il dono della vita nuova: "Ricevete lo Spirito Santo" (Gv 20,22). La Chiesa nascente, (rappresentata dagli Undici) è così una nuova creazione (cfr. Ef 2,15). Come nella prima creazione il soffio del Padre diede la vita all’uomo, così Cristo Risorto, apparendo agli Apostoli, alitò su di loro comunicando loro lo Spirito Santo e il potere di perdonare i peccati (cfr. Gv 20,12-23). Questa Pentecoste anticipata nel giorno di Pasqua, nel cenacolo, divenne pubblica il giorno di Pentecoste, quando Gesù innalzato alla destra di Dio, ricevette dal Padre lo Spirito Santo promesso e lo effuse sugli Apostoli (Atti 2,33). Allora, per opera dello Spirito Santo, si realizzò la nuova creazione. Dal Cristo risorto, dunque, la vita dello Spirito si irradia nella Chiesa che diventa Pentecoste continua. Lo Spirito Santo così non può essere separato dalla Chiesa, né la Chiesa dallo Spirito Santo. Lo Spirito dimora nella Chiesa, creandola, rinnovandola, santificandola, guidandola e operando attraverso di essa.

3.2 Lo stesso spirito nel capo e nelle membra
Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte, ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura (cfr. Gal 6,15; 2Cor 5,17). Comunicando infatti il suo Spirito costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che raccoglie da tutte le genti. In questo corpo la vita di Cristo si diffonde nei credenti che, attraverso i sacramenti, si uniscono in modo arcano e reale a lui sofferente e glorioso (LG 7). Ne deriva che essendo la Chiesa santa, i suoi membri si chiamano santi, sacerdozio santo, nazione santa (cfr. 1Pt 2,5-9), tempio santo (Ef 2,21). Da qui nasce la comunione dei santi, delle cose sante e dei fedeli santi, in cielo e in terra. Per questo, nel simbolo della fede gli articoli sullo Spirito Santo, la Chiesa e la comunione dei santi sono uniti tra loro: Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi. La pienezza di questa comunione dei santi sarà il frutto escatologico della santità seminata dallo Spirito Santo nei figli generati nella Chiesa. Perciò, nella liturgia eucaristica possiamo implorare. "Padre di bontà, che riunisci tutti i tuoi figli nell’eredità del tuo regno, con Maria la vergine madre di Dio, con gli apostoli e i santi; e lì, insieme a tutta la creazione già libera dal peccato e dalla morte, ti glorifichiamo per Cristo, Signore nostro, per il quale concedi al mondo ogni bene" (Preghiera eucaristica IV). Noi viviamo già dello Spirito e tuttavia dobbiamo continuare a camminare secondo lo Spirito finché tutta la storia non sfocerà nell’oceano infinito della Trinità. Lo Spirito ci fa veramente figli, ma l’intimità filiale dell’uomo con il Padre è appena cominciata. Lo Spirito ispira la fraternità di tutti in Cristo, ma la comunione è sempre al di là dei risultati raggiunti. Per questo lo Spirito tormenta ed inquieta, appaga e affanna, ci spinge in avanti e ci rivolge come il Verbo verso il Padre (cfr. Gv 1,1) fino a quando il Padre sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). Questa tensione verso il futuro di Dio suscita in noi la risposta della speranza "poiché nella speranza noi siamo stati salvati" (cfr. Rm 8,23-25).

6. Paradiso di colori

di Giovanni Bonanno


"La luce, quando si fa colore, ridesta attraverso lo spirito non solo la nostra retina, ma tutti i nostri sensi"
scrive Paul Claudel rievocando le vetrate di Chartres e l’opera di quanti nel tempo hanno saputo pietrificare i frammenti della luce. Immaginifico universo quello delle cattedrali francesi, il cui fine è l’esaltazione della luce che spiove dall’alto all’interno delle navate per rendere lo spazio icona della Gerusalemme celeste e dello splendore di Dio. Non trasmettono, le finestre, luce anonima, ma le infinite suggestioni della sua iridescenza. Finestre come tabulari di scritture, segni e simboli che esplicitano l’epifania di Cristo, lux mundi, nel cuore degli uomini.
Si tessono di fiori bleu, cobalto e lapislazzuli, rosso e minio, giallo e ocra, verde fondo e tenero, bianco, amaranto e viola le finestre che squadernano mosaici di ametiste, smeraldi, zaffiri, topazi e rubini. Nell’esplosione di cromie cantano la visione di Giovanni a Patmos che contempla la città fondata su pietre preziose. Non contemplano l’architettura, ma ne costituiscono l’anima, la sua ragione interiore. Perciò Chartres è per Huysmans "il supremo sforzo della materia che cerca di alleggerirsi, rigettando, come una zavorra, il peso sottile dei muri, rimpiazzandoli con una sostanza meno pesante e più lucida, sostituendo all’opacità delle sue pietre l’epidermide diafana dei suoi vetri".
Straordinaria eredità è la vetrata medievale che il Rinascimento rivisita e che il primo Novecento reinterpreta con intelligenza moderna. Ne comprendono il valore alcuni vescovi e teologi "conciliari", affascinati dalla dimensione etica ed estetica. Interprete lirico diviene Marc Chagall che con libertà semantica focalizza a Metz, Gerusalemme, Magonza, Hadassah, Parigi il cammino di Israele. "Per me una vetrata – annota il pittore – è una parete trasparente posta tra il mio cuore e il cuore del mondo". Parete di luce concepita da un poeta del colore, consapevole della verità intuita ed espressa dall’abate Suger di Saint-Denis: "Claret enim clarisque clare concopulatur / et quod perfundit lux nova, claret opus nobile". (Infatti ciò che si unisce alla chiarità nella chiarità è chiaro, / e chiara è l’opera nobile che illumina la nuova luce).
Costituisce fondamento metafisico nella storia dell’arte la luce delle vetrate. Non è ornamentazione completiva. È pura creazione che dispiega agli occhi di semplici e colti la bellezza cosmica e l’immanenza e trascendenza divina.
Con questa convinzione il vescovo di Patti sogna per il Santuario mariano di Tindari la realizzazione, in occasione del Giubileo del 2000, di tre grandi vetrate, significanti il Qadosh biblico, cioè la rivelazione di Dio nello splendore. Suo desiderio è dare personalità spirituale a tre impersonali finestre trasformandole in teleri di luce che presentino con l’energia della pittura contemporanea i temi della Creazione, Redenzione e Santificazione. Affida il progetto, mons. Ignazio Zambito, al prof. Franco Nocera, titolare della cattedra di pittura all’Accademia di Belle Arti di Palermo, artista fra i maggiori in Sicilia ed autore della vetrata di circa 15 mq di San Tommaso d’Aquino a Palermo, il cui linguaggio astratto informale affascina i visitatori. Il pittore dopo intensi studi prepara i cartoni, rispondenti alle strutture delle finestre, con vibranti segni neoespressionisti e colori mediterranei.
Riguarda la creazione del mondo il primo cartone con al centro la visione di Isaia. Il secondo la crocifissione di Cristo presenti Maria, Giovanni e Maddalena. Il terzo la Pentecoste che abbraccia Gerusalemme e New York. La trasposizione in vetro è prodigio di tecnica che rinnova la sapienza dei maestri gotici. È preceduta dalla scelta delle lastre vitree, prodotte dalla "Verrerie de Saint-Just" (Saint-Gobain, vitrage) in Francia esclusivamente per la ditta Peresson di Milano, che lavora, taglia e ricompone i vetri per Tindari. Vetri di multiforme bellezza: soffiati a bocca, spessi tre o cinque millimetri. Non appartengono alla tipologia "cattedrale" di qualità modesta e uso commerciale. Sono unici. Di essi non esistono due lastre simili. Ogni pezzo è determinato da una irrepetibile miscela di colori minerali, timbri, modulazioni, ritmi che ne formano il carattere. Il magma interno non è univoco. Si struttura di 5, 8, 11, 13 gradazioni cromatiche ed è mosso da soffi che danno vita a onde, fasce e macchie. Sono detti "bariolés" questi vetri, cui è consustanziale il colore che brilla di trasparenze fisiche e metafisiche. Presiede l’intera operazione tecnica Italo Peresson, uno dei più noti maestri vetratisti del secondo Novecento, già professore all’Accademia Carrara di Bergamo e collaboratore di Léger, Man Ray, Longaretti, Latapie, Funi, Sassu, di cui ne interpreta il genio.
Sette colori animano il rosa delle lastre, mentre il bleu si compone di cinque colori a base di ossidi di cobalto. Per questo i "bariolés" risultano iridati, sfumati, velati, leopardati, caldi o freddi per l’intensità del limone, trasparenti o acquosi per il verde celadan, proprio della invetriatura della ceramica. Negli anni cinquanta è Chagall che li reinventa con raffinate trasformazioni al fine di renderli preziosi come cristalli o gemme. Modellate e ritagliate, seguendo i profili cromatici interni ai cartoni, le lastre ondulate, angolate, tornanti compongono un puzzle impossibile. Circa duemila pezzi che l’artista definisce con incisioni e scavi e che ritocca con la "grisalle" prima di infornarli ulteriormente con cottura di sette ore a settecento gradi. Colore materico la grisalle: grigio-nero bituminoso che si aggiunge ai vetri per dare volume e chiaroscuro e per sottolineare particolari iconici. Il pittore Nocera lo utilizza secondo metodi antichi. Ma una volta semiasciutto lo raschia in alcune zone producendo tratti simili a quelli xilografici con vibrazioni luminose e fibrillazioni di filamenti.
Complesso è l’assemblaggio, come del resto ogni fase della lavorazione, a cui partecipa una équipe di specialisti, fra cui Vincenzo Amelio, Marco Morandi e Stefano Casale, che inseriscono nei binari di piombo le mille "porziuncole" di vetro collegandole al disegno di un determinato pannello, che si relaziona al piano generale del cartone. È con saldatura stagno il legamento dei piombi contenenti i vetri che, lavorati a mano, presentano spessori diversi, minore o maggiore quantità di materia e relativi movimenti, ondulazioni e gonfiori, causati da bollicine d’aria insufflate a bocca con lunghe cannule. Il procedimento, identico a quello di epoca carolingia e gotica, rispecchia il concetto neoplatonico della luce che vive nel tempio. Pittura è il vetro, regolata da leggi ottiche dissimili da quelle riguardanti affreschi, tavole e tele. Pittura di trasparenza determinata da potenza di luce e brillantezza di colori. Pittura di scienza e di enigma, la cui bellezza è sentita come ragione spirituale nel secolo XX da Braque, Roualt, Matisse, Manessier. Ne rivela il misticismo Chagall, con accanto il maestro vetraio Charles Marc, quando dà alle finestre una realtà immateriale, fantastica e astrattiva.
Franco Nocera con la sua pittura neofauve trasposta nella materia vitrea fa rivivere l’idea di uno spazio di luce-colore, assumendo la filosofia romanica delle cattedrali di Francia e la libertà inventiva del Novecento europeo. Condensa nelle tre finestre il pensiero biblico e il fascino della liturgia, la narrazione storica e l’invenzione lirica. Topoi alchemici di messaggi e simboli, di magie e sinfonie, avvolti da bleu notte e fondi marini, fuoco lavico, giallo sulfureo, turbinosi verdi che suscitano emozioni. Unico intento di Nocera è creare la luce, la stessa che governa le ore del giorno e che può plasmare e riplasmare il magma vitreo rendendolo fosforescente e opalescente. Luce solare che esalta le superfici mettendone a nudo irregolarità, densità, matericità e "granatura" ed anche la scansione delle parti, i ritmi delle tessiture e la fusione armonica o dissonante. Luce protagonista di un sogno ad occhi aperti che vede la magnificenza della natura e della storia redente, nello sfolgorio di colori che smaterializzano i volumi, dinamicizzano gli eventi, modellano le forme, drammatizzano le figure, generano corpi organici e inorganici, svelano il mistero dell’Eden, umiliato dalla morte e ricreato dallo Spirito.
Si lascia suggestionare dalla purezza del vetro l’artista monrealese che con ardita architettura compone tre grandi campiture informali e figurali, vibranti di teologia e poesia. La prima finestra, posta sulla facciata del Santuario misura 47 mq, è divisa in tre sezioni verticali e si struttura di 34 pannelli. Tema è la creazione del cosmo preceduta dall’oracolo di Isaia: "Ecce Virgo concipiet et pariet filium et vocabitur nomen eius Emmanuel". Domina assoluto il bleu di Chartres che, mentre blocca la violenza del sole pomeridiano, rende l’enigma dell’oscurità da cui trae origine il giorno. All’apice dell’arco è la mano di Dio che con il "fiat" determina l’universo ed indica "ab initio et ante saecula" la Vergine. La "Mulier amicta sole" si staglia al centro dello spazio, longilinea e avvolgente, nella lucentezza di bianchi e alabastri. Dolce immagine di donna la cui grazia fisionomica è siciliana. L’attorniano dodici stelle, la scritta ebraica Qadosh – significante la bellezza di Dio e della natura – e un grandioso volo di ali. Nella parete sinistra della vetrata è posta in alto la conflagrazione del fuoco solare, sotto una roccia; nella parte destra, è in alto la luna nascente, sotto il fogliame Adamo ed Eva, nudi nell’innocenza edenica. I tre comparti sono congiunti alla base dalla lunga orizzontalità del mare, da dove affiorano le isole Eolie. Completano l’opera gli stemmi di papa Giovanni Paolo II e del vescovo Ignazio Zambito e la dicitura "A partu Virginis 2000".
Densa di sacralità e palpitante di immaginazione la vetrata ha respiro cosmico. La policromia translucida dei molti bleu, traversati di viola, rosso, magenta, oro, enfatizza la dialettica tra la materia fragile e la forza visionaria. Colori impalpabili, carichi di lampi, che inondano corpi e menti. Colori immateriali, misteriosi nell’opacità dei lapislazzuli: incantano con l’onda di minerali liquidi sgorgati allo scoccare del big ben. Pittura lucescente la vetrata della Creazione, che proietta la sua energia all’interno del Santuario, cui dona atmosfere irreali.
È di circa 13 mq la vetrata della Crocifissione incastonata in alto, a sinistra del transetto. Un cartiglio fissato nell’azzurro recita in greco: "è la mia ora". Ariosa lunetta, divisa in tre sezioni, raffigurante nella campitura di una primavera lustrale il sacrificio del Golgota. Il corpo di Cristo, modulato da vetri biancastri e dorati, è spinto verso un azzurro riverberante di verdi. Ai piedi stanno la Madre, Maria di Magdala e Giovanni rinchiusi nel dolore. Mosse da macchie leopardate sono le figure, i cui lineamenti vengono definiti dal dripping xilografico della grisalle, che ne accentua lo smarrimento al cospetto della morte. I laterali della lunetta splendono di fiori e di foglie e dell’agnello pasquale sagomato in alabastro.
La vetrata della Pentecoste, che sta dalla parte opposta, a destra del transetto, misura anch’essa 13 mq circa. Spazio di fuoco che incendia il cielo, inonda il Cenacolo e si espande con grandi lingue su Gerusalemme e New York. Fuoco d’amore, traversato dall’avorio cangiante della colomba che plana su Maria, vestita di lapislazzuli, iconologicamente simile alla "Nigra sum sed formosa" di Tindari. Non distrugge il fuoco della Pentecoste, ma purifica e santifica il tempo degli uomini. Nella concitazione delle lastre di porpora si legge: "Super omnem carnem", indicante lo Spirito che raggiunge ogni persona. Nei campi verdi e azzurri e nel volto di un angelo sopra i grattacieli di Manatthan è il soffio di pace.
Scintillano in aenigmate le vetrate di Franco Nocera: del Qadosh ebraico, della materia cosmica, dell’esistenza terrestre, dell’essere umano. Immagini viventi della fede che abita non tanto lo spazio, quanto l’anima, carica di memoria e speranza. Perciò è miracolo l’incandescenza e l’iridescenza del vetro che si metamorfizza in realtà altra, in un universo che è punto focale della storia. Paradiso che svela la bellezza alla mente nello stupore della trasparenza, nell’incanto dei colori, nella visione di grazia.

7. Iconografia fantastica

di Franco Faranda


La nuova vetrata dipinta, posta sulla controfacciata del Santuario di Tindari, prova a raccontare, attraverso il linguaggio figurato, un significativo capitolo della Storia della Salvezza nel suo svolgimento storico e nel momento presente. La salvezza, infatti, per il cristiano, non è solo un fatto storico, ma un evento che agisce nella storia dell’uomo, coinvolge e si rivolge ad ogni uomo che, in qualche modo, è chiamato ad una personale conversione. Risulta di particolare interesse non solo la lettura analitica dell’opera, sulla quale altri si soffermeranno, ma il suo inserimento all’interno di un Santuario apparentemente ricchissimo di immagini. Questo nuovo segno iconografico coraggiosamente prova a interrompere la sequela di episodi legati alla devozione mariana proponendo una rappresentazione del Mistero mariano. Le due possibilità di lettura non sembrano contrapporsi, ma come è consuetudine all’interno dell’iconografia cristiana, i segni figurati si sovrappongono, integrandosi. Anche la collocazione sembra favorire questo percorso iconografico il cui punto di riferimento è la bellissima scultura medievale, il cui recupero ha aggiunto un importante tassello alla conoscenza della scultura lignea meridionale. La bella immagine, lontana da rappresentatività verosimiglianti o oleografiche, punta su un concetto mariano e non su un episodio. Sull’altare della Basilica non è esposta una Madonna con il Bambino, ma una specifica simbologia come è caratteristico di quella magica e luminosa epoca medievale in un’area ricca di implicazioni culturali quale è quella siciliana. I concetti espressi nel tempio di Monreale o Cefalù – sopravvissuti esempi di una cultura certamente molto più diffusa – tornano in questa icona mariana che il restauro non restituisce del tutto all’originaria bellezza, ma che consente di datare al XII secolo e di cogliere le opposte influenze di una cultura centro italiana e angioina non scisse dalla solennità iconica di stampo orientale, che poteva nascere solo in un’area pregna di culture e reciproche tollerate influenze. Questa antica testimonianza guarda la vetrata e idealmente vi si collega, dal momento che anche quest’opera propone un concetto mariano che non è l’insostituibile icona da venerare, ma la visione della salvezza che nasce da quel "fiat" che consente l’incarnazione del "Santo".
Il percorso ideale del credente attraversa pertanto la lunga navata meditando i quindici misteri del rosario proposti nei grandi mosaici delle pareti laterali. Preparato dalla semplice preghiera mariana accede all’icona che a sua volta guarda la nuova vetrata e propone al credente un cammino inverso: educato nella tradizione e nella semplicità della Fede dei Padri arriva all’icona della Madonna del Tindari e tornando indietro, verso l’uscita, si imbatte nella grande vetrata che non indica più la via d’accesso alla Madonna attraverso il "rosario", ma presenta il Santo accolto da Maria. Non a caso questo secondo percorso si snoda in alto sopra il nostro cammino terreno e trova ideale riscontro nelle due vetrate, sempre in alto, ai lati del presbiterio, sopra le tribune. Da un lato la Crocifissione che solo apparentemente ripropone la tradizione iconografica. Il vetro che si apre nelle profondità immense dell’azzurro del cielo nella controfacciata, sembra qui fare barriera e stringere in una morsa di pietra la croce con il Cristo e le figure sotto la croce. L’essenzialità dell’evento è ulteriormente ribadita dalla mancanza dei due "ladroni" che tolgono spazio al racconto e impongono la visione della Croce. Peccato che la distanza non consente di apprezzare del tutto questa rappresentazione nella sua desolata solitudine cui sembra partecipare tutto il creato che non trova spazio rappresentativo. Le lunette laterali sono ricolme di masse informi di foglie e materiale in decomposizione e gli astanti sotto la croce, più che urlare il loro dolore, partecipano della stessa dolorosa morte del Cristo. Lo stesso cielo è sparito, sostituito da un proscenio informe e scheggiato, desolato come avevamo già visto, in altro contesto, nelle esperienze giovanili di Mantegna. Le tenebre che hanno spazzato i cieli infiniti sono del tutto sconfitte dalla gloria di Maria sulla vetrata opposta del presbiterio. Torna a dominare la luce e alla mano di Dio che imperiosamente proclama il Santo sulla vetrata centrale, si sostituisce la colomba dello Spirito Santo che irrora Maria e si materializza in quel rosso che pulsa di vita e che rappresenta il sole. Le mani che prima appartenevano a Dio che plasmava Maria sono ora quelle degli uomini che si innalzano verso la fanciulla di Nazaret che mantiene i lineamenti di una giovane ragazza. Una figura moderna eppure dipinta nel solco di una tradizione millenaria che fa di questa immagine una delle figure meglio riuscite dell’intero ciclo. Il grande mantello azzurro, memore dell’antica lezione di Antonello, il diadema sul capo, nel ricordo della scultura che raffigura la "Madonna del Tindari", si fondono con i lineamenti di una giovane donna contemporanea resi leggeri e delicati dall’impalpabile materia a cui il colore, con la sua intensità conferisce volume, attingendo alla più nobile tradizione pittorica italiana. Il fluire continuo dello Spirito attraversa Maria e riempie le mani che a lei tendono. Servendosi di quelle mani il Signore opererà sulla terra attraverso la mediazione di Maria. Questo raccontano i due episodi laterali della vetrata che mostrano la protezione di Maria sulla città di Patti e l’operosità dei cristiani nelle città del mondo.
Il ciclo figurativo mariano del Santuario, apparentemente così ricco da risultare quasi chiassoso, ha saputo aggiungere un nuovo segno senza andare a sovraccaricare o a disturbare il conosciuto percorso iconografico. La sua lettura necessiterà forse di qualche spiegazione e la sua collocazione, del resto, ne riserva la conoscenza analitica solo al visitatore più attento, disponibile a farsi aiutare anche da questi nuovi segni per incamminarsi verso una percezione di Dio che riuscirà, infine, a far tacere anche la luce delle immagine e il suono degli strumenti. Nell’apparente silenzio delle cose sarà allora il Santo a parlare e illuminare la solitudine più drammatica come quella vissuta da chi ha avuto il coraggio o si è trovato nella necessità di restare sotto la croce.

8. Immagini lucenti

di Marilisa Di Giovanni


E' difficile descrivere la bellezza delle vetrate realizzate presso il laboratorio di Italo Peresson a Milano dall’artista palermitano Franco Nocera.
È difficile perché la prima e più forte ragione di bellezza sta nel colore che Franco Nocera usa con la passione, l’emotività ed il calore della sua terra; il colore, e qui l’artista è vicino al suo conterraneo Guttuso, è strettamente connaturato alla forma, al suo disegno che segue, nella frantumazione delle immagini, l’impostazione della composizione che nasce da naturali radici espressionistiche, in cui affiora, rielaborata e fatta propria, la ricca tradizione siciliana.
Le sue vetrate si pongono in relazione con la gente per il linguaggio essenziale, chiaro, sintetico che si fa immediatamente dialogo, che non vuole dire altro, ma si esprime con la forza del colore e l’incisività della forma.
Il programma iconografico delle tre lunette di notevoli dimensioni è incentrato sulla figura della Madonna (alla quale il Santuario di Tindari è dedicato) come creatura che sublima la creazione in una linea di continuità e di riscatto con Eva, come generatrice di Gesù, raffigurato ai sui piedi come l’uccello sacro, una fiammeggiante araba fenice. La Madonna come Madre ai piedi della Croce che riscatta la natura in una rigenerazione di fiori, di foglie, nuova primavera e nuova vita. E infine come immagine oggetto di adorazione, come regina del mondo a cui tutti ricorrono, che ha vegliato su una Gerusalemme che ricorda nella cupola rossa l’incontro con civiltà diverse che in essa convivono, così come nella Martorana e a San Giovanni degli Eremiti di Palermo, e che veglia sulla odierna metropoli, in un mondo che si tinge di rosso, colore e calore dell’amore di Dio, che attraverso di Lei e dello Spirito Santo lo pervade tutto.
Ma, lo ripeto, la grande forza di queste vetrate sta nel colore, che esalta linea e volume, che si tinge di sfumature diverse, nuove e bellissime, che trascolora con passaggi ora inconsueti, ora forti ora tenui, usato in modo liricamente espressionista ed al tempo stesso simbolista, carico di forte partecipazione esistenziale.
È atmosfera, ma è anche gusto del colore in sé, che tiene sempre conto dei valori della luce naturale, particolarmente calda e forte della Sicilia e del Santuario posto su una altura che cattura il sole dal suo sorgere al suo tramonto.
Sono i colori esuberanti di una vegetazione lussureggiante con foglie corpose dalle intense sfumature di verde che caratterizzano la natura che torna a rivivere dopo il sacrificio di Cristo nella Crocifissione. Qui la figura dall’espressionismo sofferto del Cristo emerge con grande drammaticità, con qualche ricordo della Crocifissione di Guttuso, negli spigoli taglienti e nel colore delle carni che ne costituiscono il volume.
Fa da controcanto la dolcezza del viso della Madonna in cui ancora una volta affiora la tradizione dell’arte siciliana nel ricordo dell’Annunciata di Antonello di Palazzo Abatellis a Palermo.
Nei visi di queste Madonne, dall’ovale perfetto, si legge ora la sofferenza della madre ai piedi della croce ora la solennità ideale della Madonna che è madre di tutti, come nella statua lignea romanica che è icona venerata dello stesso Santuario, a cui l’alta corona bizantineggiante richiama.
Qui l’immota staticità e ieraticità della figura frontale avvolta in una sorta di eternità immutabile è resa più vicina all’umanità da quelle lunghe mani che a Lei si protendono, imploranti e dalle immagini estremamente incisive delle due città, felice invenzione iconografica del pittore.
La terza Madonna, nella lunetta della Creazione dalle intense sfumature blu, con le vivaci figurette degli animali da un lato e una tradizionale nascita di Eva dal corpo di Adamo è forse quella che meglio incarna, con un viso di donna siciliana antico e moderno, dolce e forte al tempo stesso, dai profondi occhi neri, intensi, dall’incarnato madreperlaceo, la continuità della fede nella sua duplice immagine di donna e dea.
Modernità e tradizione si fondono nel risultato di un lavoro portato avanti con una grande capacità di reciproca comprensione tra l’artista Franco Nocera ed il maestro Italo Peresson. Questi, con sensibilità artistica e con perizia tecnica "antica", ha cercato i vetri migliori, le sfumature di colore che meglio esprimessero e interpretassero la ricchezza di significati che l’artista Nocera, artista nel senso più completo della parola, ha voluto consegnare alla popolazione di Tindari e ai pellegrini che visiteranno il Santuario.

Il libro può essere richiesto a:
* Segreteria Vescovile
*
Ufficio Diocesano Beni Culturali - 98066 Patti – Tel/Fax 0941-240866
* Segreteria del Santuario di Tindari, 98060 Tindari – Tel/Fax 0941-369016

Altri volumi della Collana: "Documenti e Ricerche di Storia Religiosa della Diocesi di Patti":
ARTE SACRA SUI NEBRODI, 1998

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