SCINTILLE DI LUCE
Il Giubileo a Patti

Testi

9. Dal visibile all'invisibile

di Angela La Ciura


"Ogni stile nella storia è sotto l’impero di una tecnica che prende il sopravvento sulle altre e dà a codesto stile la sua tonalità"
. Quest’affermazione di Henry Focillon, contenuta nella "Vita delle forme", è quanto mai appropriata per mettere a fuoco il ruolo rilevante assunto dalle vetrate nella produzione artistica dell’Occidente europeo, in quell’età d’oro che furono per esse i secoli dal XII al XIV. Tecnica-pilota nell’ambito della pittura monumentale, esse manterranno un rapporto costante con le tecniche suntuarie, condividendone la finezza esecutiva e l’attrazione per la materia dura e preziosa.
È nelle vetrate che si invera, con particolare pregnanza, il "Kunstwollen" di un’epoca che predilige trasparenze e bagliori, ritenuti attributi imprescindibili di un’idea di bellezza permeata di tensioni spirituali e sottesa da istanze estetico-filosofiche germinate sul ceppo della tradizione sapienziale. La mistica pitagorica e neoplatonica regnarono sovrane per tutto il Medioevo, filtrate dal pensiero cristiano che ebbe in S. Agostino il più autorevole rappresentante e conobbe, nel XII e XIII secolo, elaborazioni dalle straordinarie conseguenze speculative se applicate all’architettura e alla teoria delle immagini.
È un fatto antico la ricerca di effetti ierofanici all’interno degli edifici religiosi, utilizzando il potere di suggestione del raggio luminoso in particolari condizioni di illuminazione. La luce sapientemente convogliata nell’invaso, ora attraverso determinate aperture, ora sfruttando gli assi di allineamento della fabbrica, a secondare il rito di quel giorno e di quell’ora dell’anno, induceva nell’animo dei fedeli quel certo stato psicologico atto a rafforzarne la fede. È in età medievale che tali pratiche, connesse a complicati calcoli astronomici, toccano il vertice della perizia costruttiva.
Per l’uomo del Medioevo, ossessionato dalla paura delle tenebre, la luce è il più nobile dei fenomeni naturali, è la fonte e l’essenza di ogni bellezza sensibile, è, per analogia, l’espressione della manifestazione divina in tutta la sua potenza. Nell’estetica di Robert Grossateste (1168-1252) essa è la forma pura che origina la materia, la ordina secondo principi geometrici, ne stabilisce la dignità ontologica nella gerarchia degli esseri.
Determinante fu per la fortunata vicenda delle vetrate l’estetica metafisica di Dionigi l’Aeropagita o Pseudo-Dionigi, i cui scritti, nella versione latina resa nel IX secolo da Giovanni Scoto Eriugena, erano conservati e venerati nell’abbazia di Saint-Denis.
La vetrata non nasce a Saint-Denis – le sue origini si possono far risalire al secolo IX, in ragione di una cospicua documentazione letteraria che compensa l’esiguità di testimonianze materiali – ma è Saint-Denis, con una storica svolta, a decretarne il successo trionfale e la diffusione su vasta scala in tutta Europa.
Si deve all’abate Suger, uomo colto e organizzatore di un vivacissimo cantiere, crogiuolo di culture e di specificità operative diverse, volto alla ricostruzione dell’antica abbazia carolingia, negli anni 1140-1150, la trovata geniale di tradurre la teoria anagogica di Dionigi in una vera e propria dimostrazione visiva. L’Aereopagita, fondendo il pensiero neoplatonico con la teologia della luce del Vangelo di S. Giovanni, dove il Logos è luce che brilla nell’oscurità, considera tutte le cose create luci, teofanie, per mezzo delle quali il fragile intelletto umano percepisce Dio. La Natura e le Sacre Scritture sono pertanto schermi posti tra Dio e l’uomo; essi restituiscono ombre, vestigia, immagini velate, a volte distorte e contraddittorie, ma necessariamente siffatte per suscitare la tensione ascetica e la contemplazione divina.
La luce che illuminava gli edifici gotici, sia quella effusa ed emotiva delle cattedrali, sia quella razionale e tagliente delle abbazie cistercensi, consentiva di percepire, attraverso i sensi, realtà mistiche altrimenti ineffabili e di raggiungere lo stato di empatia. In un sistema culturale il cui cardine risiedeva nell’alchimia e nel quale gli ambiti delle singole discipline non erano ancora delineati, teologia e cosmologia, impregnate di nozioni di fisica e di ottica, produssero una filosofia della bellezza che informò la pratica architettonica attraverso un rigoroso codice progettuale, fondato sul binomio perfetto geometria-luce. L’applicazione di esso consentì di proiettare nella costruzione dell’edificio sacro le leggi dell’armonia e della stabilità del cosmo. Costituendosi inoltre la similitudine tra produzione artistica e produzione divina, le immagini divenivano un canale privilegiato per procedere dal visibile all’invisibile e attingere Dio. Più che in qualsiasi altra parte dell’edificio nelle finestre invetriate si manifestò la preminenza della cultura teologico-filosofica su quella tecnica e del committente o costruttore sull’artista.
Le vetrate, vere e proprie pareti translucide e policrome, rivestite di simboli sacri, visualizzano pertanto i veli che nascondono e al tempo stesso rivelano Dio. E se l’intero cosmo trasparente appariva come un velo illuminato dalla luce divina, nel modello, l’edificio sacro, esse assumono un valore liminare: trasportati dalla commozione estetica in una dimensione superiore, mentre si compiva la trasmutazione dal materiale allo spirituale, si potevano percepire i riflessi della Gerusalemme celeste, preannuncio della beatitudine futura.
La funzione primaria di limite, connessa all’alto valore speculativo della vetrata medievale, è sottolineata dal fatto che all’ampliarsi delle finestre corrispose l’incupirsi della gamma cromatica, rimanendo pertanto costante l’intensità luminosa all’interno dell’edificio sacro.
Alla "lux continua" delle luminose finestre del deambulatorio del coro di Saint-Denis, faceva da contrappunto la nobile "saphirorum materia", prediletta da Suger, nelle finestre del nartece e della cripta, che, nella gamma profonda dei bleu, evocava la "divina oscurità", l’imperscrutabilità divina. La circolarità e ascensionalità degli schemi compositivi adottati – medaglioni intersecantisi, tangentisi, avviluppantisi a formare più scene, intorno ad un episodio centrale – restituivano la circolarità segreta su cui si fonda l’universo e a cui l’uomo può partecipare con lo stato contemplativo.
Dopo Saint-Denis la vetrata si diffonde a tappeto nel resto della Francia e in tutta Europa, con una serie di varianti compositive, cromatiche, iconografiche che affondano le radici nella tradizione culturale e figurativa delle varie regioni, più o meno volte a recepire le formule innovative, il cui primato resterà alla Francia. Ne facilitò l’espansione l’adozione del sistema costruttivo gotico a scheletro portante che, concentrando le forze sui pilastri, grazie anche agli appoggi esterni degli archi rampanti, consentiva di svuotare la parete vanificandone l’opacità. Questa, perduta la funzione portante, intaccata da luci via via più ampie e risolte verticalmente, diviene mero elemento di separazione mentre la vetrata acquisisce valore di architettura.
Nel XII secolo l’industria del vetro prende slancio e si moltiplicano le vetrerie sotto la spinta anche di fenomeni pratici, quali i progressi nel campo della metallurgia e delle tecniche di soffiatura del vetro, consentendo peraltro di soddisfare una committenza che richiese una produzione tanto vasta da sfiorare livelli proto-industriali. La vicenda delle vetrate proseguirà tra alterne vicende, seguendo il corso della storia, sotto l’incalzare delle svolte culturali e del conseguente mutare della forma architettonica, in un rapporto serrato con la pittura che si risolverà a vantaggio di quest’ultima, snaturando la vetrata. L’ondata iconoclasta abbattutasi sull’Europa della Riforma darà avvio, nel migliore dei casi, a quel processo di rimozione, sostituzione, interpolazione, cui verranno sottoposte le finestre invetriate anche nei secoli successivi e, nel peggiore, alla loro vandalica distruzione.
È nell’Ottocento, con il recupero del Medioevo e della sua esperienza artistica e tecnica, che si compie la rinascita della decorazione vitrea, la cui produzione trarrà impulso dal revival neogotico e dall’immissione nell’arte profana. Il fenomeno trapasserà, tra Otto e Novecento, nello Jugendstil determinando lo scadimento della vetrata a elemento di arredo per edifici privati, anche sotto forma di riproduzione di quadri celebri: dietro l’appariscente rigoglio e la facile divulgazione si cela il fallimento sul piano della creazione artistica. Già intorno alla metà del XIX secolo gli spiriti più accorti mettevano in guardia gli operatori affinché rifuggissero dall’imitazione esteriore di quella perduta magnificenza, il cui approdo era inevitabilmente la sterile maniera. Bisognerà aspettare il secondo dopoguerra, contestualmente all’opera di ricostruzione intrapresa dalla Chiesa dopo le devastazioni, per assistere ad una ripresa creativa delle vetrate, connesse peraltro, per loro natura, all’architettura in cemento e in acciaio. Il rifluire dei nuovi linguaggi, dal Cubismo all’Astrattismo, alla Neofiguratività, nell’arte sacra, in uno con le scoperte tecnologiche che consentivano il recupero delle trasparenze e degli smaglianti colori delle fabbriche medievali, ha vivificato questa singolare e ardua forma d’arte, concepibile solo con l’integrazione di arte, storia e tecnica, preservandone la spiritualità e la forza comunicativa di forma del tempo, del nostro tempo.
Rivolgendo a questo punto lo sguardo alle nuove vetrate del Santuario di Tindari, emblematica appare l’esperienza di Franco Nocera che, nella complessità dell’intervento tecnico e nella resa estetico-espressiva, fondate sulla coscienza storica e su uno strenuo lavoro di ricerca, recupera i valori di una tecnica antica trasponendoli in un linguaggio moderno. Da un mixer sinergico fluiscono l’invenzione poetica e l’energia comunicativa di un’opera che, schivando maniere e manierismi, riesce a trasmettere l’emozione del presentimento dell’infinito e del mistero del creato. Appare evidente che l’autore, cogliendo il senso riposto dell’antica vetrata, affronta l’ardua prova risolvendo quelle problematiche, avvertite ancor oggi, di cui fu antesignano, a cavallo tra Otto e Novecento, al culmine dell’infuocata polemica tra arte e società, arte e artigianato, Lewis Foreman Day, seguace di William Morris. In un suo brano, preoccupato del futuro della gloriosa tecnica, dopo averne perorato lo studio serio, coglie nel segno con tanto acume che a lui lasciamo la parola per concludere: "… Il guaio è che spesso l’erudito è terribilmente limitato, il maestro vetraio troppo meccanico, il pittore completamente ignorante dei problemi del vetro. Questi tre uomini devono fondersi in uno solo. L’artigiano ideale è uno che ha grande familiarità con le opere del passato e del presente, che è un maestro nella propria tecnica e, allo stesso tempo un artista, un uomo che apprezza totalmente il meglio da non essere soddisfatto del proprio lavoro, che ha una tale fiducia in sé da non accettare, come risultato finale, quello che fà".

10. Magma di fuoco

di Giovanna Filippello


In un variegato fluire di forme, colori e segni, percorsi e attraversati dalla luce, ci appare l'antica arte della vetrata policroma, riproposta magistralmente nelle tre opere realizzate per il Santuario della Madonna del Tindari, su progetto del pittore Franco Nocera.
La vetrata, nata e sviluppatasi in Europa tra i secoli XII e XIV è formata dall'assemblaggio di vetri sagomati, incastrati tra binari in piombo e montati su un'armatura metallica. Le informazioni relative ai materiali impiegati per la fabbricazione del vetro e alle metodologie esecutive in uso nel Medioevo, periodo di massima fioritura della vetrata, possiamo ricavarle dagli scritti dell'epoca, in modo particolare dal testo: Schedula diversarium artium redatto con ogni probabilità nel XII secolo dal monaco Teofilo. Il trattato risulta composto da tre libri, di cui uno è dedicato esclusivamente al vetro, alla sua composizione e alla prassi di realizzazione delle vetrate; informazioni queste ultime, di notevole interesse, poiché difficilmente desumibili dall'analisi dell'opera compiuta. Essa, infatti fornisce indicazioni sulla natura fisica di cui è costituita, ma spesso non contiene gli elementi utili alla ricostruzione di quei processi che dalla trascrizione dell'idea conducono all'elaborazione ultima dell'opera.
Le tecniche odierne non hanno subito modifiche sostanziali rispetto a quelle utilizzate nel Medioevo e, ancora oggi, quale testimonianza del rinnovato interesse per questa peculiare forma d'arte sviluppatasi nel secolo XIX, operano vetrerie altamente specializzate, che ripropongono i procedimenti artigianali finalizzati alla fabbricazione di prodotti unici, sia per quanto riguarda la struttura, sia per gli effetti cromatici e di superficie. Tali peculiarità qualificano infatti le vetrate di Tindari, che concorrono mirabilmente a riaffermare, nell'attuale contesto culturale, il valore estetico e tecnico di questa antica pratica.
Provengono dalla vetreria francese di Saint-Just, attiva dal 1826, i materiali adoperati a Tindari. La materia prima, composta principalmente da silice addizionata ad un fondente (generalmente carbonato di sodio) e ad uno stabilizzante, viene fusa alla temperatura di circa 1.500 gradi, quindi sottoposta a lavorazione ponendo una palla vitrea di circa un chilo sull'estremità di una cannula metallica. Soffiando dentro la cannula e con abili movimenti rotatori e ondulatori, questa massa assume forma cilindrica, da cui si ricavano le lastre da utilizzare nelle vetrate. Gli ossidi metallici, aggiunti alla materia prima, permettono la colorazione del vetro, che può presentare pigmentazione uniforme o particolari motivi cromatici costituenti talora gli elementi distintivi dei prodotti delle varie vetrerie.
Le vetrate di Tindari spaziano dalle trasparenze variopinte dei vetri "bariolés", alle ricercatezze dei "placcati" e agli effetti di superficie dei "craquelures". I primi si ottengono dal vetro fuso di vari colori mescolato con la palla vitrea nel corso della lavorazione della forma. I placcati sono il risultato della sovrapposizione di smalto e vetro, utile allo scopo di schiarire l'intensità di colori che con i metodi consueti risulterebbero troppo scuri. I craquelures recano impressa sulla superficie una singolare trama a rilievo, frutto dell'effetto dell'acqua posta a contatto con la massa vetrosa incandescente.
La realizzazione della vetrata avviene in laboratori specializzati e in stretta collaborazione con il maestro ideatore; dal suo spirito creativo e dall'esperienza di abili maestranze si configura la complessa genesi della vetrata figurata. Presso il laboratorio milanese di Italo Peresson e della sua équipe si è compiuto l'intero ciclo di elaborazione delle vetrate. Gli elementi sagomati, ricavati dal modello in scala reale, sono stati raccordati, tramite delicate operazioni, entro binari in piombo a doppia scanalatura; quindi è seguita la fase di stuccatura, necessaria ad impermeabilizzare e conferire stabilità all'opera. Infine, si è provveduto alla collocazione finale. Dopo un provvisorio montaggio delle vetrate, l'artista ha sovrapposto sui pezzi sagomati una stesura pittorica di colore nero, la "grisaille", composta da polvere di vetro e ossidi metallici, stemperati con olio di trementina. Altri interventi pittorici di vari colori sono stati stesi a caldo sulla superficie vitrea. La pittura è fissata definitivamente al supporto sottoponendola all'azione del calore.
L'intervento a grisaille è finalizzato ad ottenere innumerevoli sfumature, combinandosi con i colori di fondo, a modulare i passaggi tonali, specie in prossimità dei binari di piombo. Questi ultimi creano una partitura che determina i ritmi, scandendo i percorsi; guidano inoltre l'occhio verso la tessitura pittorico-figurativa formata da un reticolo grafico, parte integrante e imprescindibile dell'intera opera al cui interno trovano spazio i graffi, i segni e le macchie della grisaille che definiscono ed esaltano nel turbinio di vibranti tarsie, corpi allungati, azzurri abissi e frammenti di cielo stellato.

11. Lo stupore del cardinale

di Dario Miceli

Card. Pappalardo Il cielo si squarcia per dare acqua. Acqua al mare, acqua allo stesso cielo in forma di nuvole, ed ancora alla terra. Gli elementi si fondono nel trionfo di un blu trascendente, dalle mille tonalità e gradazioni. L’ascesi mistica si confonde col reale, nella saggia mescolanza di vecchio e nuovo Testamento, in cui la genesi è raccontata da una mano d’artista, consapevole del giorno dopo: il "day after" della Creazione, il giorno della pena, dell’ingiusta condanna, del sommo sacrificio. Il tratto non nasconde l’inquietudine del figlio, ubbidiente e grato, ma al tempo stesso tormentato dai perché. Sacre idee e forme profane.

Un trionfo, di misticismo e umana coscienza, il blu che diventa azzurro e poi celeste, nella vetrata di San Tommaso, a Palermo. L’ambiente è sobrio, dove le pareti massicce si ergono imponenti e nude, quasi a voler schermire lo spirito. Ma il visitatore, appena entrato, non se n’avvede. Il suo occhio è subito catturato dall’imponente vetrata che si staglia di fronte a lui, proprio sopra l’altare. Quella che in origine doveva essere un’abbagliante fonte di luce, è ora trasformata in un rassicurante manto di colori, che occulta il bagliore ma al tempo stesso filtra la potenza del sole, e la fa passare attraverso le fitte maglie del vetro colorato, la traduce in linguaggio, in parole non dette, quelle dell’anima che immagina, non vede, il mistero della vita.
Qui l’artista Franco Nocera, così come in altre sue opere, non teme il confronto con la tradizione dell’arte sacra. Anzi la sfida, con coraggio. Affidando il giudizio ad un lettore scevro da condizionamenti e luoghi comuni culturali.
Il fruitore ideale della vetrata di Nocera è l’uomo del giorno dopo: il giorno dopo il sacrificio e la Risurrezione. Il momento della serena e consapevole contemplazione. E della speranza, forse, nell’eterno ritorno di quelle sequenze miracolose che diedero origine all’Universo. Dal mare al cielo, in un "continuum" idealmente circolare, Nocera racconta la creazione dei pesci, delle piante, degli animali e degli uccelli. Suscita meraviglia, certo, la meraviglia del creato. Ma non solo. Essa non basta più. Il miracolo della vita non può e non deve limitarsi a destare stupore. Nell’atto supremo della Creazione c’è molto più che l’esibizione dell’Onnipotenza divina. Nocera suona la sveglia alle coscienze dei fedeli. E le sue forme, proprio perché nuove e in rottura con la tradizione dell’iconografia sacra, ma non per questo eretiche o dissacranti, aggiungono un’idea e un sentimento: Amore. L’amore che ha mosso la mano di Dio, che ha ispirato le azioni dell’Uomo, l’opera della Chiesa. L’Amore che muove tutta l’arte di Nocera. E se le vetrate della chiesa di San Tommaso costituiscono una pur significativa espressione della sensibilità trascendente dell’artista monrealese, per trovare la sua compiuta estrinsecazione bisogna visitare il Santuario di Tindari. Luogo di culto ma anche culla di un mito, quella della Madonna Nera, dove le catene della tradizione e della conservazione di essa sembravano dover imprigionare per sempre l’immaginazione dei fedeli. Racchiuderla nelle immaginette votive, nelle figure stereotipate, nelle scene elementari che raccontano frammenti di Sacre Scritture. E invece, quelle catene sono state allentate, anche se non ancora definitivamente spezzate.
Accanto alle raffigurazioni tradizionali, che pure sopravvivono, ora nel suggestivo Santuario di Tindari s’impongono le "rivoluzionarie" vetrate di Franco Nocera. Il racconto attraversa i passaggi cruciali della spiritualità cristiana: dalla Creazione alla Immacolata Concezione, dalla Nascita alla Morte di Cristo. Le forme sono quelle dell’anima, pure, non filtrate dall’occhio umano e dai suoi maliziosi compromessi. Ed ecco stagliarsi, proprio vicino alla Vergine, due corpi nudi: un uomo e una donna, l’uno accanto all’altra, abbandonati nel sogno eterno dell’Eden. Ancora Amore, dunque. Ma niente di sensuale. Macchiati semmai, della colpa di omissione del peccato. Incontro sublime, allora, fra Etica ed Estetica. Il nudo fa il suo ingresso in Cattedrale. L’effetto è scioccante.
La comunità di Tindari, la rocca sopra Oliveri che Quasimodo descrisse mite e bonaria, è travolta dalle sensazioni. Il partu virginis non è più un segreto. Ora è visibile nel tempio della Madonna. Adamo ed Eva han buttato via le foglie, generate da secoli di falsi pudori, e adesso appaiono come il Padre li ha voluti creare. Qualcuno in paese ha gridato allo scandalo. Qualcun altro ha urlato: Finalmente! Altri ancora si sono assisi sulle panche, semplicemente a contemplare. Il clero locale si è diviso, tra favorevoli e contrari. Il dibattito è a tutt’oggi aperto. Mentre le vetrate di Nocera campeggiano, immerse nel loro silenzio mistico e consapevole dei trambusti delle coscienze.  Trionfano, in alto, nel Santuario. La loro vitalità eccessiva svilisce le polemiche. Polemiche anacronistiche, d’altronde, anche per l’arcivescovo emerito di Palermo, il card. Salvatore Pappalardo, che dell’intervento decorativo nel Santuario di Tindari è stato testimone della prima ora.
Quando ancora non si conoscevano gli effetti che l’opera di Nocera avrebbe prodotto nella microsocietà della rocca che sovrasta Patti, Pappalardo manifestò apprezzamento. Una posizione che ribadisce ancora oggi. Nella raccolta atmosfera della Casa Diocesana di Baida, a Palermo, Sua Eminenza sfoglia le foto delle vetrate di Nocera. Le ammira di nuovo, sia pure nella riduttiva rappresentazione dei formati fotografici. "Nell’arte sacra la Chiesa ha fatto tanto cammino", afferma. "Da un atteggiamento di diffidenza per le forme moderne, ha pian piano imboccato la via della progressiva comprensione, fino all’accettazione, culminata con Papa Paolo VI che celebrò l’ingresso dell’arte moderna nei Musei Vaticani. Un cammino che non si è più arrestato, fino all’odierna Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II".
Un invito, dunque, agli uomini di Chiesa, perché sappiano raccontare il loro spirito cristiano in un linguaggio nuovo. Meglio ancora, in tutti i linguaggi possibili. "Le vetrate di Tindari – prosegue Pappalardo – non sono in contrasto con il resto del Santuario, ma ne rappresentano l’evoluzione. Hanno coperto uno spazio vuoto. E sono il segno del progresso del mondo, dell’uomo e quindi dell’arte, anche di quella sacra". Per l’alto prelato, neppure i due corpi nudi devono suscitare scandalo. "Protagonista è la Natura. Non vedo nulla di scandaloso. Se poi qualcuno volesse a tutti i costi mostrarsi sensibile al nudo, che tuttavia non ha nulla di provocante nella posa e nel contesto in cui è inserito, allora suggerirei di seguire con lo sguardo la linea ascensionale della Madonna, immagine molto mistica, immersa nell’azzurro del cielo, fra le stelle". Come dire, sì anche al nudo, se "super omnem carnem". Per Pappalardo "l’insieme deve rendere un’idea, e in queste vetrate l’insieme è fatto di cielo, mare, fuoco, fiori, foreste, caverne. E della mano di Dio". Ma all’interno del Santuario ora convivono due modi diversi e distanti di raccontare il Sacro. Le immagini tradizionali dell’interno e le "forme dello scandalo" nelle lunette della crociera e nel "rosone" della facciata.
"Queste ultime valorizzano le prime", afferma il Cardinale senza esitazione. "Chi non riesce a seguire il cammino dell’umanità dovrebbe comprendere che il progresso non è una cesoia ma un continuum". Pappalardo suggella le proprie convinzioni con una proposta che qualcuno potrebbe giudicare ardita: sostituire i lunghi fascioni dei vetri modulari, che uniscono la facciata con la crociera, con nuove moderne decorazioni, nello stesso stile delle vetrate di Nocera. Proprio per rimarcare, all’occhio del visitatore, il percorso dell’arte sacra, dalle rappresentazioni tradizionali a quelle contemporanee. Forse una provocazione: "Chi verrà dopo, loderà chi oggi ha avuto il coraggio di intervenire".
Ma allora cos’è l’arte sacra? "Quella che rivela la sensibilità trascendente dell’artista". Le parole di Pappalardo fanno dimenticare le polemiche di Tindari. "Chi davvero sente l’arte, non è certo nelle icone stereotipate che riconosce il genio".

12. Qadosh: epifania divina

di Melo Freni
Melo Freni

Santo e terribile
è turbine e carezza nel respiro
il vento dello Spirito
è alluvione potenza del mistero
soffio che svela e crea
qadosh, qadosh, àghios
soavità dell’impeto nel sanctus
qadosh della pietà nella tempesta
che schiuma dei deserti
ogni sabbia nel cuore
travolge gli alberi ed alza le maree.

È terribile e santo il nome tuo
è stupore che assale
mentre l’eco si spande "Ohimé, sono perduto"
se il santo Dio del numen nel silenzio
al fuoco lascerà per divorare
gli stipiti del tempio
- sbigottiti la fiamma invochiamo
che il coraggio risvegli
di ascendere l’altare
perché dell’àghios è l’unico potere
la sua forza invisibile che ignora
le spade degli eserciti
"Senza carri e cavalli
il più altero silenzio ora vi assale"
chi potrà stare alla presenza del Signore?
così fu santo il soffio
del divino segnale.

Sanctus, qadosh, àghios
la santità è bufera che ci assale
nelle tiepide spine della notte
col sole che dilacera le piogge
- e il nebrode cerbiatto nei colori
risveglia le memorie
per risalire al sogno della Croce
travolgente divina numinosa
ruach, spirito lieve, oikéiosis
intimità dell’anima al segreto.

Il libro può essere richiesto a:
* Segreteria Vescovile
*
Ufficio Diocesano Beni Culturali - 98066 Patti – Tel/Fax 0941-240866
* Segreteria del Santuario di Tindari, 98060 Tindari – Tel/Fax 0941-369016

Altri volumi della Collana: "Documenti e Ricerche di Storia Religiosa della Diocesi di Patti":
ARTE SACRA SUI NEBRODI, 1998



Read more about: che and della
transported by FREE Go FTP